I TERREMOTI DEL GIORNALISMO

Francamente non ne posso più della tragica sceneggiata con la quale tratta le sciagure il Giornalismo. Il 24 /01/ 2010 una nota grintosa peraltro brava giornalista intervistando Bertolaso con perentoria diligente aria investigativa pretendeva di farsi da lui dire a chi fosse da addossare la responsabilità del caotico insieme dei soccorsi agli Haitiani (aiuti bloccati […]

Francamente non ne posso più della tragica sceneggiata con la quale tratta le sciagure il Giornalismo. Il 24 /01/ 2010 una nota grintosa peraltro brava giornalista intervistando Bertolaso con perentoria diligente aria investigativa pretendeva di farsi da lui dire a chi fosse da addossare la responsabilità del caotico insieme dei soccorsi agli Haitiani (aiuti bloccati soprattutto dall’inesistenza di una direttiva univoca o addirittura di qualsiasi direttiva) come se Haiti fosse L’Aquila, (non so peraltro sotto quali punti di vista), e ci è riuscita.Da un angosciato Bertolaso in sostanza si è appreso, come antefatto, che gli interventi di soccorso ad Haiti erano inficiati anche dall’intento di apparire dei soccorritori – ovviamente quali benemeriti efficienti generosi apportatori di concreto civile amore globale. Subito dopo, come fatto, che il (presunto) fallimento dell’intera operazione umanitaria sarebbe da addebitare all‘inefficienza degli Americani, la stessa inefficienza -ha precisato Bertolaso- che si sarebbe verificata nella sciagura dell’11 settembre 2001, per essere state le operazioni di soccorso affidate all’esercito e non agli esperti del settore calamità, infine a conclusione, ora, ad Haiti, al non aver preso in mano, sempre gli Americani, le redini dell’intera mobilitazione internazionale che così senza direttive si è trovata allo sbando, perciò del tutto inefficiente. (Perché non evidenziare lo stato dei luoghi, l’inesistenza dei macchinari necessari per rimuovere le macerie, e le tante già pianificate risorse che in genere un Paese progredito possiede ad Haiti inesistenti?).

A me pare che Bertolaso, che per quanto ne so ho motivo di stimare, questi giudizi se li poteva risparmiare, ma nessuno è perfetto.

A me pare che piuttosto avrebbe dovuto mettere in risalto il malcostume giornalistico di battere la grancassa con il maggior fragore possibile ad ogni sciagura e ammonire di non spegnere i riflettori al primo segno di saturazione del pubblico interesse, visto che Haiti non era davvero nuova quanto a sciagure. Perché lo conosciamo lo spartito, la notizia deve rendere, se non rende più non ha ragione di essere e ci si rivede alla successiva sciagura.

Ma, tornando all’uomo Bertolaso, suppongo che, non essendo egli un politico anche se Sottosegretario dell’attuale Governo, non si sia chiesto con quale investitura gli Americani avrebbero potuto porsi a capo dell’organizzazione totale degli aiuti e neppure che non abbia previsto che ove l’avessero preteso e reificato l’opinione pubblica mondiale antiamericana sarebbe insorta definendolo un colpo di mano, un arbitrio pretestuoso per un’occupazione di fatto del territorio. Il giorno successivo però, a seguito delle ondate giustamente reattive alle sue parole, Bertolaso ha spiegato che, vista la presenza massiccia degli americani, si attendeva da essi anche una dirigenza diciamo carismatica delle operazioni di salvataggio e di assistenza. Quindi la sua critica era dovuta alla grande fiducia e speranza da lui riposta nell’intervento americano. Da qui lo sfogo e l’equivoco. (E come poi non ricordare che i trentamila criminali fuggiti dalle prigioni potevano essere fronteggiati solo dai militari USA? E perché non mettere in evidenza l’alacre lavoro svolto nell’ospedale allestito di sana pianta e provvisto d’ogni sussidio diagnostico e terapeutico dagli Israeliani? O dagli Italiani o da altri ancora?). Risposta, perché Bertolaso è un generoso e un esperto, avrebbe voluto tutto molto di più in fatto di coordinamento, ben a ragione.

Solo che il motivo del fallimento avrebbe dovuto, e dovrebbe, cercarlo altrove.

Infatti il problema è un altro, ne ho già parlato in un articolo scritto dopo l’intervista fatta ai vulcanologi Ines e Sergio Albergamo, e ora cerco di spiegarlo meglio, se mi riesce.

Io non cesso dunque di stupirmi nel constatare che non si voglia coltivare l’idea, politicamente e mediaticamente (accoppiata intimamente tessuta), che guerre e calamità vanno esorcizzate nei momenti di tregua, e che l’ondata allarmistica, e relativa gara di generosità, a danno avvenuto o in corso per quanto doverosa non può però dare frutti duraturi (forse L’Aquila fa eccezione e se molti sono ancora in tenda è per una loro comprensibile e ben motivata scelta). E’ dopo la tragedia o meglio prima delle tragedie durante la quiete (apparente), che occorre lavorare a pieno regime continuativamente, perché esse infatti si ripetono indisturbate.

In questo frangente però il Giornalismo mi pare forse innocente, in quanto rispecchia la cultura attuale dell’umanità. Potrebbe il Giornalismo sopravanzarla?

Dipende da quale forma di Giornalismo e da quale potere e compito gli si attribuiscono. Ma questo è l’argomento che io tratto nel Giornalismo di Pace. Ora come ora il Giornalismo può però e dovrebbe mantenere nel tempo accesa l’attenzione su queste che sono le più gravi calamità che colpiscono l’uomo perché a tutt’oggi incontrollabili (e che secondo gli esperti tali saranno per sempre). Io che non sono un’esperta mi posso permettere di fantasticare e quindi di sperare in un patto di sopravvivenza che da una conoscenza sempre più approfondita potrebbe materializzarsi forse fin dalle viscere dello stesso pianeta.

Rifletto che, tornando all’argomento di base, questo stato di cose e cioè il fatalismo cui la società mondiale soggiace per disattenzione culturale, mi pare dovuto all’ignoranza in cui tutti nessuno escluso siamo immersi, si fa per dire, fino al collo quanto al comportamento distruttivo e imprevedibile di tante forze della natura. Questa ignoranza dipende sia dal carattere della cultura genericamente intesa sia dalle tante culture settoriali ripiegate su se stesse. L’una, rincorrendo gli infiniti ambiti dello scibile e il cosiddetto progresso, e le altre, affinandosi sempre di più in impegnative ricerche, ignorano o destituiscono della dovuta importanza la complessa problematica connessa con le lamentate calamità.

Nessuno infatti che avendone il potere ( politici, insegnanti e divulgatori, quindi giornalisti) ci ha insegnato che prima d’ogni altra conoscenza dovrebbe ritenersi prioritaria la consapevolezza del terreno sul quale disinvoltamente camminiamo. Gli stessi vulcanologi Albergamo da me richiesti sulla partecipazione del corpo insegnante di diverse scuole da loro contattate, mi hanno riferito che si scontravano con una totale assenza direi di vibrazioni nei confronti dell’argomento. E la cosa non dovrebbe meravigliare. Gli insegnanti infatti poiché gestiscono la cultura che è stata loro impartita, e poiché questa cultura non offre risalto alcuno alle “ragioni”del pianeta sul quale viviamo, o meglio del pianeta che ci ospita, non possono essere in grado di trasmettere agli alunni quella diversa concezione della vita che l’assimilazione di questa prioritaria concettualità comporta. Spiego che ancora o non si conosce o viene tenuto in assoluto non cale quale stravolgimento totale dei cosiddetti valori comporterebbe una profonda compenetrazione del vero rapporto tra noi e il pianeta.

Tutto questo lo si è ignorato nonostante che voci singole, considerate espressione di settori specialistici di nessuna presa sulla quotidianità, tentino da tempo di segnalarne la fondamentale importanza ; ma oggi non lo si può più nascondere.

L’obbiezione più ovvia è che la politica è costretta a gestire l’emergenza minuto per minuto, parcheggiando gli eventuali progetti di prevenzione, e questo purtroppo è vero. Ma perché allora non iniziare almeno a considerare la sperequazione esistente tra le diverse realtà sotto la luce della loro inutilità conflittuale? ,e così gli attriti generazionali?, e l’idea di un futuro che non sia secondo al presente, essendo il futuro il presente di domani? Perché non riflettere sull’opportunità di dirottare forze, intelligenza dei sentimenti e capacità molteplici essenziali, dalle attuali logiche distruttive o effimere, che quotidianamente perseguiamo, a progetti compatibili con la nostra regalata o concessa (dal pianeta) sopravvivenza? Forse le cose potrebbero cambiare in più sensi, sia quanto alla prevenzione, sia quanto all’adozione di un ben diverso “stile” di vita consapevole dell’inutilità d’ogni suppletiva violenza più attinente a una statica “etologia”dell’uomo (anche se apparentemente dinamica) che a una sua superiore (spesso millantata) capacità di scegliere o almeno pesare sul suo destino.

Una informazione capillare (ecco il Giornalismo!) che erodesse millimetro per millimetro ogni giorno gli spazi sterili bruciati sull’altare delle apparenze o del protagonismo quando non dell’esaltazione della violenza o forse ancora di più su quello dei rituali logoranti scontri frontali di decrepite antinomie, potrebbe verosimilmente far virare la mentalità di massa dal proprio particulare e da tanti tramandati luoghi comuni trasudanti odio, alla costruzione di un futuro globale condiviso.

A questo punto subentrerebbero forse a ragione i ragionieri della cosa pubblica mondiale. Ci porrebbero il seguente quesito, “costa di più (o si risparmia di più o perfino si guadagna di più) a progettare e costruire abitazioni antisismiche ovunque necessarie, o accorrere durante le sciagure al rituale ìmpari salvataggio, con elargizioni a pioggia (delle quali non sappiamo il destino), e seguenti caotiche ricostruzioni per poi dimenticare il tutto fino alla prossima sciagura?

E’ necessaria una risposta, se prevale la seconda ipotesi come la più praticabile (perché tutti troppo impegnati nel lucroso commercio delle armi e delle droghe, mi si perdoni l’amara ironia), allora non possiamo che optare per le solite medesime tragiche sceneggiate. Con vittoria dell’audience di corto respiro. Prosaico certo, ma anche da valutare come argomento alla portata di tutti.

Nelle more dell’attesa di una svolta evolutiva della nostra conoscenza e intima consapevolezza, l’erosione degli spazi mediatici usati scioccamente di cui sopra, altrimenti impiegati, potrebbe gradualmente essere di grande aiuto. Questi spazi recuperati, da un lato potrebbero prepararci – è giocoforza ripetersi – a una filosofia di vita ben diversa da quella attuale, e dall’altro potrebbero stimolare ad un protagonismo della prevenzione rischio sismico ( e altri rischi). Già così l’informazione peserebbe non poco a favore di un’evoluzione di massa vista da un ottica non prona e rassegnata alla nostra cosiddetta condizione naturale.

Tutto questo il Giornalismo potrebbe iniziare a prenderlo in considerazione.

Nell’atto di congedarmi scontenta (per non aver saputo dire il molto di più che avrei voluto), mi sovvengo di Obama. Ed ecco che per assonanza, mi trovo a chiedermi –mi si perdoni l’eccesso di candore- se Osama, uomo notoriamente ricchissimo, non sia per caso intervenuto con un suo tangibile apporto in aiuto della gente di Haiti. Se così fosse sarebbe un confortante segnale di umanitaria speranza…

Gloria Capuano

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Una risposta a “I TERREMOTI DEL GIORNALISMO”

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