Foto di gruppo con mestizia

Abbiamo resistito ai mesi più drammatici della crisi, seppure con una “evidente fatica del vivere e dolorose emarginazioni occupazionali”. Al di là dei fenomeni congiunturali economici e politico-istituzionali dell’anno, adesso occorre una verifica di cosa è diventata la società italiana nelle sue fibre più intime. Perché sorge il dubbio che, anche se ripartisse la marcia […]

Abbiamo resistito ai mesi più drammatici della crisi, seppure con una “evidente fatica del vivere e dolorose emarginazioni occupazionali”. Al di là dei fenomeni congiunturali economici e politico-istituzionali dell’anno, adesso occorre una verifica di cosa è diventata la società italiana nelle sue fibre più intime. Perché sorge il dubbio che, anche se ripartisse la marcia dello sviluppo, la nostra società non avrebbe lo spessore e il vigore adeguati alle sfide che dovremo affrontare. Sono evidenti le manifestazioni di fragilità sia personali che di massa: comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattativi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e futuro. Si sono appiattiti i nostri riferimenti alti e nobili (l’eredità risorgimentale, il laico primato dello Stato, la cultura del riformismo, la fede in uno sviluppo continuato e progressivo), soppiantati dalla delusione per gli esiti del primato del mercato, della verticalizzazione e personalizzazione del potere, del decisionismo di chi governa. E una società appiattita fa franare verso il basso anche il vigore dei soggetti presenti in essa. “Una società ad alta soggettività, che aveva costruito una sua cinquantennale storia sulla vitalità, sulla grinta, sul vigore dei soggetti, si ritrova a dover fare i conti proprio con il declino della soggettività, che non basta più quando bisogna giocare su processi che hanno radici e motori fuori della realtà italiana”. L’ultimo rapporto Censis fotografa un’Italia lacera e mesta: una Nazione sempre più spessore né slanci, priva di sogni e di desideri, in cui si tira a campare in un limbo in cui tutto appare ingrigito. A commento la Repubblica scrive che, ciò che emerge in modo chiaro dal rapporto appena pubblicato,  è che, mentre in tutto il mondo la ricetta per uscire dalla crisi prevede il recupero delle energie professionali e l´auto-imprenditorialità, noi che eravamo il paese delle ditte in casa e degli uffici nei garage, assistiamo ad una caduta del lavoro non dipendente. Fra il 2005 e il 2009 l´Italia ha “perso” per strada 475 mila imprenditori e lavoratori in proprio (artigiani e commercianti). Ma ciò che è ancora più grave,  abbiano meno idee innovative e abbiamo perso terreno nei comparti a maggiore tasso di specializzazione, come le calzature, la gioielleria, i mobili, gli elettrodomestici e i materiali da costruzione. Il pericolo, avverte il Censis, è che le strategie di nicchia non bastino più: serve più ricerca e una maggiore innovazione nei prodotti e nelle materie prime. E dove non ci sono più idee c´è anche meno lavoro, a fare le spese di questa nuova condizione sono stati soprattutto i giovani. Non riusciamo più a individuare – sostiene più avanti il rapporto – un dispositivo di fondo (centrale o periferico, morale o giuridico) che disciplini comportamenti, atteggiamenti, valori. Si afferma così una «diffusa e inquietante sregolazione pulsionale», con comportamenti individuali all’impronta di un “egoismo autoreferenziale e narcisistico”: negli episodi di violenza familiare, nel bullismo gratuito, nel gusto apatico di compiere delitti comuni, nella tendenza a facili godimenti sessuali, nella ricerca di un eccesso di stimolazione esterna che supplisca al vuoto interiore del soggetto, nel ricambio febbrile degli oggetti da acquisire e godere, nella ricerca demenziale di esperienze che sfidano la morte (come il balconing). “Siamo una società pericolosamente segnata dal vuoto, visto che ad un ciclo storico pieno di interessi e di conflitti sociali, si va sostituendo un ciclo segnato dall’annullamento e dalla nirvanizzazione degli interessi e dei conflitti”. Valutazioni queste più filosofiche rispetto a quanto detto in precedenza e sinceramente non siamo sicuri che “ricerca demenziale di esperienze che sfidano la morte”, sia effettivamente un fenomeno già così rimarchevole e significativo fa elevarlo a pratica comune. Non lo vogliamo nemmeno pensare, per quanto ci siano stati effettivamente già diversi episodi drammatici. Mentre sul “ricambio febbrile degli oggetti da acquisire e godere” la riteniamo un’evidenza di cui abbiamo dato contezza moltissime volte. Come ha scritto Massimo Gramellini su La Stampa, nessuno ha la forza di guardare più in là e si vive in un presente perenne e sfocato, attanagliati dallo sgomento di non farcela. Sulle macerie della guerra, l’inconscio dei nonni riusciva a progettare cattedrali di benessere: quegli uomini avevano visto abbastanza da vicino la morte per immaginare la vita. Sulle macerie morali del turbo-consumismo, la cui crescita dopata ha ucciso i desideri (di fronte a tremila corsi di laurea o tremila canali televisivi l’impulso è di spegnere tutto), l’inconscio dei nipoti sembra paralizzato da un eccesso apparente di libertà e dall’assenza di punti di riferimento. Anche la delega al leader salvifico, di qualsiasi colore, ha fatto il suo tempo. Orfani di padre, cioè dell’autorità che trae origine dall’autorevolezza e consente ai figli di avventurarsi in territori inesplorati, sapendo di poter contare all’occorrenza su una robusta ringhiera. E con una classe dirigente specializzata nel dare cattivo esempio, priva del titolo morale per imporre regole che è la prima a non rispettare. E, conclude Gramellini, tutto ci dice che  non ci si possa aspettare il riscatto sociale da teorie economiche e ideologie politiche, ma solo dall’urgenza di tante rivoluzioni individuali che riescano a connettersi fra loro, creando una vera comunità. Darsi una disciplina esistenziale, fissare dei traguardi e poi mettersi in marcia senza vittimismi, perché i “se” sono la patente dei falliti, mentre nella vita si diventa grandi “nonostante”. Sempre l’ultimo Censis, poi, ci dice che, con la crisi, si registra una crescita del credito al consumo (+5,6% nel 2008 e +4,7% nel 2009), mentre il valore delle operazioni con carte di pagamento ha raggiunto complessivamente i 252 miliardi di euro nel 2009. Hanno contribuito soprattutto le carte di credito (+9% di operazioni rispetto al 2008), le carte prepagate (+23,6%), i bonifici bancari automatizzati (+1,3%). Quindi, nonostante la crisi, quindi, non si riduce la spesa ma semplicemente si ricorre a pagamenti rateizzati.  I consumi “obbligati” delle famiglie, inoltre, si sono attestati su un livello mai raggiunto in precedenza. Erano il 18,9% della spesa familiare complessiva nel 1970, il 24,9% nel 1990, il 27,7% nel 2000 e oggi superano il 30%. Crescono le forme di pagamento cui non ci si può sottrarre. Gli aumenti tariffari per il prossimo anno vengono calcolati in poco meno di 1.000 euro a famiglia. Poi ci sono i contributi aggiuntivi per le scuole dell’obbligo, le fasce blu per i parcheggi, le multe che sostengono le esangui casse dei Comuni, le revisioni di auto e caldaie, le parcelle per la dichiarazione dei redditi. Complessivamente, la stima della “tassazione occulta” elaborata dal Censis porta a 2.289 euro all’anno per una famiglia di tre persone. E, per quanto riguarda l’ambiente, la quota di superficie territoriale impermeabilizzata è aumentata al 6,3%. Tra il 2005 e il 2009 le superfici degli ipermercati sono cresciute del 28%, quelle dei grandi centri di vendita specializzati (elettronica, arredamento, sport, bricolage) del 34,5%, il numero dei multiplex (i cinema con almeno 8 schermi) è salito del 21,5%. Circa, poi, le ricette, il Censis afferma che, di fronte ai duri problemi attuali e all’urgenza di adeguate politiche per rilanciare lo sviluppo, viene meno la fiducia nelle lunghe derive su cui evolve spontaneamente la nostra società. Ancora più improbabile è che si possa contare sulle responsabilità della classe dirigente, sulle leadership partitiche o su un rinnovato impegno degli apparati pubblici. La tematica rigore-ripresa è ferma alle parole, la riflessione sullo sviluppo europeo è flebile, i tanti richiami ai temi all’ordine del giorno (la scuola, l’occupazione, le infrastrutture, la legalità, il Mezzogiorno) sono solo enunciati seriali. L’esempio ultimo è dato dalla Fiat che, come scrive l’Unità, lascia il tavole delle trattative, perché comprende che persino Fim e Uilm non avrebbero condiviso la sua strada spericolata che porta alla distruzione del contratto nazionale di lavoro, non avrebbe potuto presentarsi in pubblico con un documento sottoscritto solo dal sindacato aziendalista Fismic. . Il problema di Mirafiori è importantissimo, non solo per i 5500 lavoratori della Carrozzeria che attendono di sapere cosa dovranno fare domani. La modalità del possibile accordo, o la rottura, avrà conseguenze sull’intero assetto contrattuale dell’industria perché, di deroga in deroga, non si capisce perché altre imprese non dovrebbero seguire l’esempio della Fiat. Ma, in questo caso, le fabbriche diventerebbero una giungla ingovernabile, dove comanda il più forte e la stessa competizione tra imprese risulterebbe alterata tra aziende rispettose dei contratti o meno. Più utile è sarebbe oggi un richiamo a un rilancio del desiderio, individuale e collettivo, per andare oltre la soggettività autoreferenziale, per vincere il nichilismo dell’indifferenza generalizzata. “Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita”, quersta la vera questione, per il Censis, ma anche per chi ha ancora un minimo di senso critico.

Carlo Di Stanislao

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