Il cinema chiude (e la cultura pure)

Oggi se ne occupa Paolo Conti, con un articolo nelle pagine romane del Corriere: continua la moria dei cinema nella indifferenza totale della politica ed in tutte le realtà nazionali. A Roma, città del cinema e per il cinema,  il glorioso Metropolitan di via del Corso è sbarrato dal 2010 e diventerà presto l’ennesimo megastore. […]

Oggi se ne occupa Paolo Conti, con un articolo nelle pagine romane del Corriere: continua la moria dei cinema nella indifferenza totale della politica ed in tutte le realtà nazionali.

A Roma, città del cinema e per il cinema,  il glorioso Metropolitan di via del Corso è sbarrato dal 2010 e diventerà presto l’ennesimo megastore.

Già chiusi, o con una programmazione ridottissima, Gregory, Troisi, Admiral, Maestoso, Embassy, Empire, Roma e, in quanto all’ex cinema America, nel cuore di Trastevere, si parla di un suo abbattimento per la realizzazione di un complesso di miniappartamenti.

Una situazione drammatica, proprio nella città che fece davvero grande l’industria cinematografica di casa nostra.

Si procede, inoltre,  a marce forzate verso lo smantellamento di Cinecittà,  per far posto ad una pesante speculazione edilizia dietro cui c’è Luigi Abete e nonostante, come segnalato da Il Manifesto, una nota Ecodem ci dica che dai i dati del mercato cinematografico non sembra affatto che Cinecittà sia in crisi, anzi nuovi film e nuove produzioni, anche da tutto il mondo, continuano a rivolgersi al suo grande bacino di competenze.

Ma, nNonostante la protesta degli ecologisti di Roma che, già a giugno, firmarono una nota per tutelare competenze e professionalità degli storici studi cinematografici e la protesta, a luglio, dei lavoratori delle aziende Cinecittà Studios e Cinecittà Digital Studios; il rischio di  cambio di destinazione d’uso di tutto il sito resta in piedi, perchè il progetto industriale prevede di fatto l’allontanamento di quasi tutte le maestranze e non  è stato che rinviato.

Lo scorso 23 ottobre, al Teatro Valle occupato da tempo, vi è stata una assemblea da cui è scaturita una richiesta molto chiara: che l’attuale amministrazione, e i candidati futuri sindaci, si impegnino a scongiurare il cambio di destinazione d’uso per evitare speculazioni immobiliari. Che si apra un confronto, soprattutto sui complessi aspetti legati al passaggio al digitale.

Naturalmente sulla nota dei lavoratori dello spettacolo si sono pronunciate tutte le opposizioni in Campidoglio e alla Pisana (il Pd, Italia dei Valori, Sinistra e libertà); ma nessun amministratore ora al potere si è fatto vivo, quasi che la scomparsa delle sale cinematografiche (e di Cinecittà) non riguardi nessuno, né la qualità della nostra  cultura,  da sempre al centro del circuito internazionale dell’offerta cinematografica.

D’altra parte che attendersi da una politica rappresentata e declinata da un Gianni Alemanno che, ad aprile, a proposito dei “camion bar” che deturpano Roma ed i suoi monumenti, dichiarò, sempre al Corriere: “Non possiamo togliere i camion bar dal Colosseo perché una legge regionale prevede, in caso di spostamento, l’equivalenza di posizione”. Riferendosi,  evidentemente,  ad una “posizione” economica.

Davvero ciò che più angoscia è il silenzio totale della politica, che offre da solo lo spessore di una classe di amministratori sempre più autoreferenziale e sempre meno pronta a cogliere ciò che davvero emerge dalla vita quotidiana dei cittadini e che ha a che vedere con i lori autentici bisogni.

Speriamo che almeno Marco Muller abbia la decenza e la sensibilità di trovare uno spazio per denunciare questa grave crisi nell’imminente Festival Internazionale del Film di Roma; ma ne dubitiamo fortemente.

In questi giorni è in giro un film non eccezionale ma in tema: “Viva l’Italia” di Massiliano Bruno, in cui Michele Placido è un arrogante e vizioso senatore che a causa di un malore perde la capacità di poter mentire, mettendo nudo la decadenza e il qualunquismo che permeano la politica italiana.

Tuttavia, profittiamo per dirlo, bazzicando i toni dell’amaro e professando una morale di ferro, il film, che vorrebbe essere una commedia, non è divertente e il mancato divertimento uccide i già moribondi intenti.

Il fatto è che, al solito, la sceneggiatura è trita e la storia risaputa, condita con i soliti temi: il talento (sempre florido!) dei più umili, l’animo gretto dei potenti, il disinteresse dei politici e ancora le ingiustizie dei pregiudizi e i sogni schiacciati da una realtà ingiusta.

Molto meglio guardare i documentari presentati a Moliterno, in provincia di Potenza, nella quinta edizione di “Visioni Altre”, con, per la prima volta, una due-giorni di anteprima nello scorso mese di agosto, in cui,  fra l’altro, vi è stata la proiezione del primo film da regista di Ascanio Celestini: “Parole sante”, che racconta in forma di ballata atroce ed elettrizzante la lotta dal basso di 4000 precari dell’Atesia, società leader nei call center, che dopo due anni di vertenza dura alla fine riescono a vincere la battaglia e a farsi risarcire (anche se solo in parte) le loro spettanze arretrate. Un film dallo stile limpido, leggero, sospeso fra ironia, garbo ed empatia, che racconta e commenta senza essere mai saccente e burbanzoso, nel solo della migliore tradizione del cinema nostrano.

E meravigliosa sarebbe organizzare, con l’Istituto Cinematografica Lanterna Magica ed il supporto di politici non più indifferenti o distratti, nella nostra L’Aquila, una tre giorni con Celestini, Virzì e Daniele Vicari, a commentare, con i loro film, come si porta avanti un sogno nonostante il silenzio assordante delle istituzione e senza scadere nelle banalità del già visto e già sentito, in una città in cui molti parlano ed hanno parlato, ma solo per far rumore e lasciare le cose irrisolte e comatose.

Chiudono i cinema in una Italia che chiude alla cultura, a livello nazionale e locale, in cui per un Festival come il “Di Venanzio” di Teramo, una regione (l’Abruzzo), stanzia solo 3.000 euro: molto meno di quanto elargito per certe manifestazioni bocciofile.

Nella stessa Italia, a febbraio scorso, scoppiò lo scandalo del sito “Culturaitalia”, portale che si riproponeva di divulgare l’immenso patrimonio artistico, culturale e storico del nostro paese, nato nel lontano 2005 e costato non meno di 9 milioni di euro, disfunzionante in modo incredibile (come rivelò Presadiretta), un abominio, un sito inutile che ricorda un catalogo da biblioteca messo in disordine, senza capo né coda; uno spreco di soldi che in sette anni non è riuscito a produrre qualcosa di digeribile e consultabile. Un’occasione persa, uno spreco evidente, che una politica insipiente non ha saputo prevenire o fermare.

Carlo Di Stanislao

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