Quando i mondi si scontrano, alle origini della vita sugli altri mondi alieni

È un mondo alieno orfano alla deriva nello spazio interstellare. Gli astronomi europei dell’ESO, grazie al Very Large Telescope ed al Canada-France-Hawaii Telescope, hanno identificato un corpo celeste che molto probabilmente è un pianeta solitario vagabondo nello spazio, senza una stella madre. Se confermata, sarebbe la prima scoperta del genere. Il candidato esopianeta interstellare oltre […]

È un mondo alieno orfano alla deriva nello spazio interstellare. Gli astronomi europei dell’ESO, grazie al Very Large Telescope ed al Canada-France-Hawaii Telescope, hanno identificato un corpo celeste che molto probabilmente è un pianeta solitario vagabondo nello spazio, senza una stella madre. Se confermata, sarebbe la prima scoperta del genere. Il candidato esopianeta interstellare oltre ad essere il più interessante e finora il più vicino al Sistema Solare, a una distanza di circa 100 anni luce dalla Terra, per l’assenza di una stella molto brillante, ha consentito all’equipe guidata da Philippe Delorme di studiarne l’atmosfera in gran dettaglio. L’oggetto fornisce agli astronomi un’anticipazione molto concreta degli imminenti risultati ottenibili dall’analisi diretta degli esopianeti che i telescopi spaziali e terrestri riveleranno intorno a stelle simili al Sole. Non si tratta dell’esomondo alieno Bellus nel famoso film “Quando i mondi si scontrano”(When Worlds Collide, Usa 1951). Di genere fantascientifico (è previsto un remake) il thriller, della durata di 83 minuti, diretto da Rudolph Maté, racconta la fine della Terra quando la stella Zyra e il suo unico pianeta, Bellus, si avvicinano al Sistema Solare. La stella è in rotta di collisione con la Terra e un gruppo di scienziati prepara un’astronave in grado di raggiungere Bellus: ai pochi fortunati che saliranno a bordo della nave è affidato il futuro del genere umano. La realtà è più fantasiosa della fantasia perché alla Natura nulla è impossibile. Un pianeta è un corpo celeste che orbita attorno ad una stella, ma che, a differenza di questa, non produce energia con la fusione nucleare, e la cui massa è sufficiente a conferirgli una forma sferoidale, laddove la propria dominanza gravitazionale gli permette di mantenere libera la sua fascia orbitale da altri corpi di dimensioni comparabili o superiori. Il nostro Sistema Solare ha otto pianeti. Plutone è stato declassato al rango di pianeta nano. Nell’antichità, come rivela l’etimologia del termine (in greco antico πλάνητες στέρες plànētes astéres, stelle vagabonde), venivano considerati pianeti tutti gli astri che si spostavano nel cielo notturno rispetto allo sfondo delle stelle fisse. I pianeti interstellari sono oggetti di massa planetaria che vagano per lo spazio senza legami gravitazionali con una stella. Alcuni possibili esempi di questo fenomeno sono già stati trovati nel passato, ma senza conoscere la loro età non è stato possibile capire se fossero realmente pianeti o nane brune, stelle “mancate” senza la massa minima che serve per innescare le reazioni nucleari di fusione dell’idrogeno che fanno splendere le stelle. Molti candidati per questo tipo di pianeti vagabondi sono diventati noti negli Anni ’90 del secolo scorso quando gli astronomi hanno scoperto che è difficile stabilire il limite di massa tra una nana bruna e un pianeta. Studi più recenti hanno suggerito che potrebbe esserci un numero enorme di questi esopianeti alla deriva nella nostra Galassia, una popolazione fino a quasi il doppio delle stelle di sequenza principale. Un rischio remoto d’impatto per la nostra Terra! Gli astronomi ora hanno scoperto un oggetto, chiamato “CFBDSIR2149”, che sembra far parte di una “corrente” di stelle vicine, nota come Associazione AB Doradus. L’oggetto è stato identificato nell’estensione della “survey” infrarossa franco-canadese di nane brune fredde. I ricercatori hanno scoperto il pianeta alieno nelle osservazioni effettuate dal telescopio CFHT (Canada France Hawaii Telescope) e hanno sfruttato la potenza del VLT dell’Eso per esaminarne le proprietà. Il telescopio CFHT è gestito dal Consiglio Nazionale delle Ricerche del Canada, dall’Institut National des Sciences de l’Univers del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) francese e dal’Università delle Hawaii. L’equipe ha osservato l’esomondo vagabondo sia con la camera WIRCam applicata al telescopio CFHT delle Hawaii sia con la camera SOFI del New Technology Telescope dell’Eso in Cile. Le immagini prese in tempi diversi hanno permesso di misurare il moto proprio del presunto esopianeta vagabondo e di confrontarlo con quello dei membri dell’Associazione AB Doradus. Gli studi dettagliati dell’atmosfera sono stati fatti con lo spettrografo X-shooter montato sul VLT dell’Eso all’Osservatorio del Paranal in Cile. L’Associazione AB Doradus è il gruppo stellare più vicino al Sistema Solare. Le sue stelle si muovono insieme nello spazio e si pensa che si siano formate contemporaneamente. Se l’esopianeta orfano è veramente associato a questo gruppo (e perciò è un oggetto giovane) è possibile dedurre molte informazioni, tra cui la sua temperatura, la massa e la composizione dell’atmosfera. L’appartenenza all’Associazione AB Doradus renderebbe la massa del pianeta gassoso circa 4-7 volte quella di Giove, con una temperatura effettiva di circa 430 gradi Celsius. L’età dell’esopianeta sarebbe la stessa del gruppo stellare, da 50 a 120 milioni di anni. Rimane una piccola probabilità che l’associazione con il gruppo sia casuale. Il legame tra il nuovo oggetto e il gruppo stellare in movimento è la chiave fondamentale per permettere agli astronomi di stimare l’età dell’oggetto appena scoperto. L’analisi statistica del moto proprio del pianeta vagabondo (il cambiamento angolare della posizione in un anno) mostra una probabilità dell’87 per cento che l’oggetto appartenga all’Associazione AB Doradus e più del 95 per cento che sia sufficientemente giovane da avere una massa planetaria. Per cui è più probabile l’ipotesi che sia un pianeta interstellare piuttosto che una stella mancata. Candidati pianeti interstellari sono stati trovati nel passato in ammassi stellari molto giovani ma non potevano essere studiati in dettaglio. Questo è il primo oggetto isolato di massa planetaria scoperto all’interno di un gruppo stellare in movimento e l’associazione lo rende il candidato pianeta alieno vagabondo più interessante finora. “Cercare pianeti intorno alla loro stella madre è come studiare una lucciola che sta a un centimetro di distanza da un potente faro d’automobile – spiega Philippe Delorme dell’Institut de planétologie et d’astrophysique de Grenoble (CNRS/Université Joseph Fourier, Francia) autore principale della ricerca “CFBDSIR2149-0403: a 4-7 Jupiter-mass free-floating planet in the young moving group AB Doradus?” pubblicata da Astronomy & Astrophysics il 14 Novembre 2012 – quest’oggetto vicino ci offre la possibilità di studiare la lucciola in dettaglio senza la luce dei fari a rovinare tutto”. Gli astronomi pensano che simili pianeti interstellari si formino o come pianeti normali espulsi dal loro sistema originario ovvero come oggetti isolati, come le stelle più piccole o le nane brune. In entrambi i casi sono oggetti interessanti, sia come pianeti senza stella sia come gli oggetti più piccoli in un intervallo che va dalle stelle più massicce alle più piccole nane brune. “Questi oggetti sono importanti perché ci aiutano a capire meglio come si possono espellere i pianeti dai sistemi planetari ovvero come oggetti molto leggeri possano derivare dai processi di formazione stellare – rivela Philippe Delorme – se questo oggettino è un pianeta espulso dal suo sistema nativo, si evoca l’immagine suggestiva di un mondo orfano, alla deriva nello spazio vuoto”. Questi esomondi isolati, senza stella al seguito, potrebbero essere comuni, anche tanti quante le stelle normali: possono rivelare la loro presenza quando passano di fronte a un astro. La luce che ci raggiunge dalla stella di sfondo viene piegata e distorta dalla gravità dell’oggetto, rendendo brevemente la stella più brillante, un processo fisico noto come microlente gravitazionale. Le survey di microlenti nella Via Lattea potrebbero aver scoperto dei pianeti interstellari in questo modo (Nature, 2011). Se “CFBDSIR2149” non appartiene all’Associazione AB Doradus è più complicato essere sicuri della sua natura e delle sue proprietà: potrebbe essere definito come una piccola nana bruna. Entrambi gli scenari fanno parte delle domande fondamentali su come si formano e si comportano stelle e pianeti. “Ulteriori ricerche dovrebbero confermare che CFBDSIR2149 è un pianeta interstellare – spiega Philippe Delorme – quest’oggetto potrebbe essere usato come parametro di riferimento per comprendere la fisica degli esopianeti che verranno scoperti dai sistemi di immagini ad alto contrasto nel futuro, tra cui lo strumento SPHERE che verrà installato al VLT”. Gli astronomi europei sono all’avanguardia nella scoperta dei pianeti alieni simili alla Terra. Un esomondo, forse abitabile, è stato appena individuato nella fascia verde climatica (la “Goldilocks zone” che può sostenere l’acqua allo stato liquido) di un sistema solare alieno con una stella nana, simile al Sole, situata a 42 anni luce dalla Terra. “L’astro HD 40307 è una vecchia nana perfettamente stabile – dichiara Guillem Angla-Escude, un ricercatore dell’Università di Goettingen in Germania – è non c’è ragione per credere che un pianeta di taglia e clima terrestri non possa sostenere la vita”. Gli scienziati sapevano che HD 40307 ospitasse almeno tre pianeti, sebbene troppo vicini all’astro per sostenere le condizioni adatte alla vita. Ma l’analisi dei dati spettrali forniti dallo spettrografo esoplanetario HARPS (il cacciatore di mondi alieni per eccellenza!) dello European Southern Observatory, ha rivelato altri tre esomondi su questo lontano sistema solare. Ad HARPS, uno strumento installato all’Osservatorio di La Silla in Cile, non sfugge nulla. Grazie all’uso di nuove analisi e tecniche in grado di filtrare e ridurre l’influenza della stella madre, è stato possibile aumentare significativamente la sua sensibilità per stanare i tre nuovi esomondi, vere e proprie super-Terre in orbita attorno alla stella HD 40307 che oggi sappiamo essere sede di almeno sei pianeti alieni. Tuomi e Angla-Escude, a capo del team di ricerca, sono gli autori della scoperta. Uno dei tre nuovi esomondi, chiamato HD 40307g, ha almeno sette volte la massa della Terra, compie una rivoluzione attorno alla sua stella in 198 giorni (tanto dura un anno lassù) ad una distanza di 90 milioni di chilometri. I parametri orbitali sarebbero favorevoli allo sviluppo di un’atmosfera esoplanetaria adatta a sostenere un clima di tipo terrestre e la vita, secondo Hugh Jones dell’Università di Hertfordshire. Siamo nel posto giusto? Abbiamo scoperto la nuova Terra? Certamente le probabilità sono enormemente cresciute ma finora nulla di comparabile alla nostra Terra, con la sua Luna, è stato ancora confermato. In teoria su HD 40307g non fa né troppo caldo né troppo freddo. I pianeti troppo vicini alla loro stella, bruciano: l’acqua evapora e la vita non riesce ad attecchire. I pianeti troppo lontani sono ghiacciati. Tuomi ha calcolato una temperatura media su HD 40307g di circa 9 gradi Celsius. L’esomondo gira su se stesso, ha un giorno e una notte come la Terra. Potrebbe avere una superficie rocciosa con una tettonica a zolle come sulla Terra; potrebbe essere interamente coperto da un immenso oceano o, forse, ipotesi più realistica, da una spessa atmosfera di gas che lo renderebbe simile a Nettuno. Gli scienziati della Nasa, grazie al Telescopio Spaziale Kepler, hanno fatto un annuncio simile nel Dicembre 2011 con la scoperta di una super-Terra attorno a un’altra stella a 600 anni luce dal Sole. Ma HD 40307g è un esomondo molto più vicino al nostro. Scoperte eccitanti e sorprendenti, come quella del primo esomondo su Alpha Centauri, aspettano di essere rese pubbliche, come rivela David Pinfield dell’Università di Hertfordshire, a capo del network europeo di scienziati che sta perlustrando ed analizzando ogni angolo dello spazio profondo attorno alle stelle più vicine al Sole. L’obiettivo è quello di scoprire altri pianeti alieni abitabili come la nostra Terra. Target naturali degli attuali e futuri telescopi. Per ora gli astronomi classificano la super-Terra HD 40307g come un pianeta candidato fino alla conferma ufficiale che potrà scaturire solo da speciali osservazioni e follow-up da terra e dallo spazio. I tre nuovi esomondi sono stati rivelati grazie alla tecnica della velocità radiale che misura gli effetti indotti dalla gravità dei pianeti sulla loro stella madre. Ma i futuri telescopi terrestri e spaziali misureranno direttamente la luce di questi lontani mondi alieni, analizzandone l’atmosfera per capire se sono ospitali come il nostro o se sono capaci di supportare qualche altra forma di vita. HD 40307 è una stella un po’ più piccola e meno luminosa del Sole. È sorprendente il fatto che la scoperta dei tre nuovi esopianeti sia giunta da una nuova raffinata analisi dei dati già acquisiti dall’Eso grazie allo strumento High Accuracy Radial velocity Planet Searcher accoppiato al telescopio di 3,6 metri di diametro su La Silla. La probabilità di aver scoperto altri mondi simili alla Terra è inferiore al 50 per cento. La verità al momento è che, secondo quando riferito dagli scienziati, possiamo solo speculare sulle dimensioni dei tre esomondi: potrebbero essere simili alla Terra o un po’ più piccoli e caldi di Nettuno senza una superficie solida. L’orbita di HD 40307g, alla giusta distanza dalla stella, consente la rotazione del pianeta su se stesso. È da escludere il legame gravitazionale tipico che osserviamo sulla nostra Luna che rivolge sempre la stessa faccia alla Terra. HD 40307g probabilmente ruota come la Terra, mostrando alla sua stella sempre luoghi differenti di ciascuna faccia durante la giornata. E questo incrementa considerevolmente le probabilità di trovare condizioni molto simili a quelle terrestri a 42 anni luce di distanza. Chissà, mondi dove sarà possibile osservare il volo in formazione di miriadi di uccelli, di nugoli di tordi che, come in queste ore tardo-autunnali nell’emisfero boreale della Terra, volteggiano sui cieli delle città disegnando geometrie spettacolari (forse influenzati dai campi elettromagnetici) prima di migrare verso le regioni più calde e soleggiate dell’estate australe. Molto più lontana è la super-Terra abitabile Kepler-22b annunciata dalla Nasa nel Dicembre 2011. Certamente 600 anni luce sono niente in confronto alle dimensioni della nostra Galassia, circa 100mila anni luce. Ma ha molto più senso puntare il prossimo telescopio estremamente grande E-ELT dell’Eso e il James Webb Space Telescope della Nasa sugli esomondi più vicini, per fotografarli direttamente così come sono in Natura. Oggi bisogna accontentarsi delle rappresentazioni artistiche degli esopianeti scientificamente corrette. Misurare con precisione le dimensioni dei pianeti extrasolari attorno alle stelle più brillanti, per capire la loro struttura interna e la loro evoluzione, è l’obiettivo principale della missione appena approvata dall’Agenzia Spaziale Europea a cui l’Inaf, l’Asi e l’Università di Padova forniranno un importante supporto scientifico e tecnico. Sarà il nostro “metro spaziale” che permetterà di conoscere con grande precisione quanto sono grandi gli esoprima dio quelli simili per dimensioni e masse alla Terra. CHEOPS (CHaracterizing ExOPlanets Satellite), questo è il nome della nuova missione dell’Esa ufficialmente approvata il 19 Ottobre 2012, partirà per questo suo particolare obiettivo scientifico nel 2017 per conoscere come sono fatti i pianeti extrasolari comparabili alla Terra e compatibili con la vita terrestre. “Cheops sarà in grado di misurare, in quella frazione di sistemi extrasolari dove i pianeti transitano davanti alla loro stella madre, la loro dimensione con grande accuratezza – rivela Isabella Pagano dell’Inaf-Osservatorio Astrofisico di Catania, una dei tre membri del team italiano proponente la missione – questo parametro è molto importante perché ci permetterà di risalire alla densità di quei pianeti e quindi alla loro struttura interna. Un’informazione decisiva per capire come i pianeti si siano formati e più in generale come siano fatti i sistemi planetari al di fuori del nostro”. La partecipazione italiana a Cheops, la prima dell’Esa di “classe S”, ovvero piccola, è assai significativa, sia dal punto di vista scientifico sia tecnologico. C’è, infatti, un nutrito gruppo di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e dell’Università di Padova che segue progetti di ricerca e caratterizzazione di pianeti extrasolari, forti anche della recente entrata in funzione dello spettrografo HARPS-N installato al Telescopio Nazionale Galileo, ottico-infrarosso di 3,58 metri di diametro, sulle Isole Canarie ( scoperti in questo contesto saranno parte degli obiettivi di Cheops, creando così una forte sinergia tra i due strumenti. Sotto l’aspetto tecnologico, l’Inaf supporterà l’Asi nella realizzazione degli specchi principale e secondario del telescopio di bordo, dello schermo che protegge il satellite e la sua strumentazione dalla radiazione solare ed alla calibrazione del sistema di puntamento. Nel progetto sono coinvolti per l’Inaf gli Osservatori Astrofisici di Catania e Torino, gli Osservatori Astronomici di Padova e Palermo e la Fondazione Galileo Galilei. Partecipa l’Università di Padova. L’Agenzia Spaziale Italiana fornirà un contributo determinante alla missione, affidando all’industria italiana la realizzazione degli specchi, dello schermo e di parte del sistema di puntamento e supportando gli scienziati per le attività di loro responsabilità. La missione potrà contare sull’utilizzo del Centro Asi di Malindi come stazione di terra e sull’Asi Science Data Center (ASDC) come contributo alla riduzione e all’archiviazione dei dati. L’obiettivo scientifico principale di Cheops sarà quello di studiare la struttura di pianeti extrasolari con raggi che vanno tipicamente da una a sei volte quelli della Terra e con masse fino a venti volte quella del nostro pianeta, in orbita attorno a stelle luminose. “La missione è stata selezionata, tra le 26 proposte all’Esa dalla comunità scientifica europea, per il suo interesse culturale, scientifico e per la sua fattibilità in soli cinque anni” – rivela Barbara Negri, responsabile dell’Unità Esplorazione e Osservazione dell’Universo dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e “advisor” del Science Programme Board dell’Esa che ha selezionato la missione. “La partecipazione italiana a Cheops pone definitivamente la nostra comunità al massimo livello internazionale in un settore di ricerca giovane, ma di alto impatto scientifico e di grande interesse per il pubblico” – fa notare Giampaolo Piotto dell’Università di Padova, membro del gruppo che ha proposto la missione all’Esa (erà a 800 chilometri dalla Terra, ben 400 Km al di sopra della Stazione Spaziale Internazionale, per tre anni e mezzo (missione primaria), cercando di identificare i pianeti alieni di taglia terrestre dotati di atmosfera. Dall’Anno Domini 1992 del secolo scorso, gli astronomi hanno scoperto ufficialmente migliaia di pianeti alieni di tutte le taglie utilizzando il metodo dei transiti ed altre tecniche di caccia, interfacciando i dati di tutti i telescopi ottici disponibili sulla Terra e nello spazio. Cheops consentirà di avere misure accurate del raggio di un esopianeta. Per gli esomondi di massa nota, potrà essere rivelata la densità, fornendo indicazioni sulla loro struttura interna. I parametri-chiave consentiranno agli scienziati di correggere il tiro per scoprire esomondi del tutto simili alla Terra. Non solo. Capiremo anche il futuro del nostro Sistema Solare. I pianeti si formano, evolvono, migrano e si scontrano, minacciando le civiltà. La European Space Agency è la via ufficiale pubblica allo spazio dei futuri Stati Uniti d’Europa. L’Esa è una libera organizzazione intergovernativa creata nel 1975. La sua missione pacifica è quella di studiare e sviluppare la capacità di volo spaziale dell’Europa per migliorare, attraverso gli investimenti scientifici e tecnologici, la vita dei cittadini d’Europa e del mondo. L’Esa è composta da 19 Stati Membri: Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Romania, Spagnia, Svezia, Svizzera e Regno Unito, dei quali 17 sono Stati Membri dell’Unione Europea. Molto presto si uniranno anche la Polonia e la Bulgaria. Mediante “Cooperation Agreements” l’Esa stipula accordi con vari Paesi del mondo come il Canada, coordinando i programmi scientifici, tecnologici, le risorse umane, intellettuali e finanziarie degli Stati Membri. In un Progetto unitario che scientificamente già può far parlare l’Europa (e il Regno Unito) con un un’unica voce istituzionale nazionale! A dimostrazione del fatto, Signor Primo Ministro Cameron, che la scienza unisce laddove, spesse volte, la politica divide. L’Esa sviluppa lanciatori, navicelle spaziali, industrie, impianti necessari all’Europa per competere sui mercati spaziali internazionali globali. Oggi l’Esa lancia satelliti per l’osservazione della Terra, la navigazione, le telecomunicazioni e l’astronomia. Lancia sonde automatiche nel Sistema Solare e coopera nell’esplorazione umana dello spazio. Gli scienziati punteranno il telescopio spaziale di 13,2 pollici di Cheops (200 Kg) verso le stelle più brillanti che ospitano esopianeti alieni. Ne misureranno il raggio e la massa per studiarne la composizione atmosferica e interna. È il primo passo decisivo prima dell’esplorazione umana diretta. Queste informazioni, infatti, si riveleranno preziose anche per le compagnie private che, grazie alla liberalizzazione dell’impresa spaziale, vorranno sostenere i costi e gli investimenti del volo umano interstellare senza gravare sulle finanze pubbliche. Perché i mondi extraterrestri, anche nel nostro Sistema Solare, sono ricchi di minerali e di tesori. Le multinazionali che cosa stanno aspettando? Un gruppo di astronomi americani ha individuato un pianeta che sembra composto per almeno un terzo di diamanti, intorno ad una stella simile al Sole. Il pianeta alieno si chiama “55 Cancri e”, a 40 anni luce dalla Terra. Dapprima, forse, era una stella massiccia. Poi è divenuta un pianeta con una peculiarità, l’essere composto principalmente di carbonio allo stato cristallino, di cui il diamante è una delle sue forme più pure. Allo studio hanno partecipato quattro astronomi dell’Inaf- Osservatorio Astronomico di Cagliari. È soltanto uno degli esomondi alieni più preziosi del Cosmo. C’è qualcosa che brilla nel cielo, ma non è più una stella: è un mondo di diamanti. È vero, non brilla di luce propria, ma secondo i ricercatori che lo hanno studiato è costituito per almeno un terzo da materia in tutto simile a quella dei diamanti. Analizzato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Yale, è un esopianeta grande due volte la Terra. Fu scoperto nel 2004. “La superficie di questo pianeta è probabilmente coperta di grafite e diamante piuttosto che d’acqua e di granito” – rivela Nikku Madhusudhan, un astronomo della Yale University. Un primo caso di pianeta simile fu oggetto di una ricerca internazionale pubblicata su Science alla quale parteciparono quattro astronomi dell’Osservatorio Astronomico di Cagliari guidati dal suo Direttore Andrea Possenti. Gli scienziati ritengono che l’esopianeta sia composto per la maggior parte da carbonio, ferro e carburo di silicio: almeno un terzo del pianeta è probabile che sia fatto proprio di cabonio sotto forma di diamante. La ricerca, pubblicata su Astrophysical Journal Letters, descrive “55 Cancri e” come una super-Terra: il suo raggio, misurato nel 2011 con il  Telescopio Spaziale Spitzer, supera di 2,3 volte quello della Terra e la sua massa, simile a quella di Nettuno, è otto volte maggiore della Terra. È uno dei cinque pianeti che orbitano attorno a una stella simile al Sole, 55 Cancri, visibile a occhio nudo nella costellazione del Cancro. “55 Cancri e” è un pianeta super-caldo: può raggiungere temperature fino a 2.148 gradi Celsius. Il suo anno dura solo 18 ore. Secondo alcuni ricercatori all’inizio pare sia stata una stella massiccia che poi si è pian piano trasformata in un pianeta. Ma non uno qualsiasi. Un pianeta decisamente inconsueto, di quelli che durano per sempre. Il suo interno è costituito in buona parte da materia simile al diamante ma altamente radioattiva. Gli esomondi alieni più preziosi evidentemente non rifiutano la compagnia delle stelle più dense e velenose: utilizzando il radiotelescopio di Parkes, in Australia, alcuni astronomi hanno scoperto una pulsar, denominata PSR J1719-1438, situata nella costellazione del Serpente, a circa 4000 anni luce dalla Terra. Le pulsar sono stelle peculiari, di dimensioni piccolissime (20 km di diametro), che emettono onde radio in fasci conici, comportandosi come un radiofaro: esaminando la serie degli impulsi radio provenienti da PSR J1719-1438, i radioastronomi si sono accorti che essi anticipavano e ritardavano in modo sistematico, con ciò indicando la presenza di un pianeta in orbita attorno alla stella pulsar. Ulteriori osservazioni, compiute con il radiotelescopio Lovell in Inghilterra e con il telescopio Keck alle Hawaii, hanno permesso di stabilire che tale pianeta percorre un’orbita circolare in circa 2 ore e 10 minuti, che la distanza fra la pulsar e il pianeta è di soli 600.000 Km (cioè meno del raggio del Sole) e che la sua massa è di poco superiore a quella di Giove. Ma il raggio del pianeta è minore della metà del raggio gioviano. Ne risulta una densità molto più elevata di quella comune in corpi di massa planetaria. In base a queste ed altre evidenze, il pianeta dovrebbe essere composto in gran parte di carbonio e di ossigeno allo stato cristallino. Com’è noto, il diamante rappresenta una delle forme cristalline del carbonio e di qui l’ipotesi che buona parte del pianeta abbia una struttura apparentabile ad un diamante. La formazione di questo pianeta è, a sua volta, inusuale: sarebbe il residuo di una stella un tempo massiccia, la cui materia gassosa è stata travasata per oltre il 99.9% verso la pulsar durante un processo, ormai concluso, che ha riaccelerato la pulsar fino all’elevatissimo ritmo di rotazione attuale, di circa 173 giri ogni secondo. “In quella fase lontana — spiega Andrea Possenti, uno degli astronomi che hanno preso parte alla ricerca – la pulsar doveva essere una potente sorgente di raggi X, con caratteristiche simili alle cosiddette Binarie a raggi-X Ultra Compatte di Piccola Massa, di cui PSR J1719-1438 e il pianeta compagno dovrebbero dunque rappresentare dei discendenti”. La scoperta è il risultato di un progetto su larga scala di ricerca di pulsar in corso col radiotelescopio da 64 metri di Parkes. Per studiare questi ed altri oggetti simili, gli astronomi italiani oggi hanno a disposizione uno strumento di dimensioni identiche a Parkes, ma di tecnologia molto più moderna, il Sardinia Radio Telescope presso San Basilio in provincia di Cagliari. “Se Parkes può ancora compiere scoperte di questa portata, c’è da essere elettrizzati al pensiero di cosa potremo scoprire con il Sardinia Radio Telescope negli anni a venire” – fa notare Marta Burgay, che di scoperte se ne intende, avendo già al suo attivo, con i colleghi di Cagliari e una diversa equipe internazionale, la scoperta della pulsar doppia. Sono le analisi sempre più raffinate a produrre i risultati più eccezionali: scandagliando sistematicamente il cielo, il team internazionale ha prodotto ben 200 Terabyte di dati che sono poi stati analizzati con i supercomputer della Swinburne University of Technology (Melbourne), dell’Università di Manchester e del consorzio di supercalcolo Cybersar, di cui l’Osservatorio di Cagliari costituisce uno dei poli. “Macinare quotidianamente enormi moli di dati con Cybersar può sembrare a prima vista ripetitivo – rivela Sabrina Milia, la più giovane del gruppo, all’Università di Cagliari – ma che emozione ad ogni nuova pulsar scoperta!”. Le gemme più preziose, quindi, sono lassù, tra gli infiniti spazi interstellari. Precedenti studi sull’esomondo “55 Cancri e” suggerivano la presenza in superficie di fluidi allo stato supercritico, ossia di gas ad altissima pressione e temperatura. Ma erano studi basati sull’idea che “55 Cancri e” fosse un mondo alieno simile alla Terra chimicamente. Le nuove scoperte indicano che l’acqua ed altri liquidi lassù semplicemente non esistono. Almeno non come ce li immaginiamo sulla Terra. Forse dovremmo pensare alle lune di Giove e Saturno per immaginare un vulcanismo e una tettonica a placche atipici e poco familiari con quelli terrestri. L’analisi atmosferica sarà determinante. “55 Cancri e” orbita 26 volte più vicino di quanto faccia Mercurio con il Sole. Ciò significa che rivolge sempre la sua stessa faccia alla stella madre. Insomma, quasi Crematoria, nelle Cronache di Riddick. I fluidi supercritici rendono possibile la vita? Sulla Terra l’acqua diventa un fluido supercritico all’interno dei serbatoi dei razzi a propulsione chimica. Un esomondo alieno supercritico è in grado di ospitare forme di vita? Se lo fosse, allora potremmo trovarla anche su Titano, su Nettuno e Urano. Una risposta quasi certa la fornirà dal 2018 il nuovo James Webb Space Telescope della Nasa. Il Telescopio Spaziale Hubble è un ottimo cacciatore di pianeti alieni. Nel Novembre 2008, due team di ricerca annunciarono di aver osservato e fotografato, per la prima volta nella storia dell’Astronomia, due esopianeti in orbita attorno alle stelle HR 8799 e Fomalhaut. L’oggetto chiamato “Fomalhaut b” (Kalas et al. 2008) fu immortalato all’interno di un anello di polveri e detriti piuttosto lontano dalla sua stella madre secondo i parametri del nostro Sistema Solare. Grazie alla comparazione tra lo spessore e la localizzazione dell’anello, e i modelli di formazione planetaria in questi dischi di materia primordiale, gli autori ipotizzarono che Fomalhaut b fosse di massa gioviana. La luminosità variabile dell’esomondo gassoso suggerì che fosse dotato di anelli come il nostro Saturno, una caratteristica attribuita dagli scienziati alla massa del pianeta in grado di trattenere i gas e i detriti “pescati” lungo la sua orbita. Studi successivi sul sistema solare alieno di Fomalhaut, pubblicati dopo la scoperta, misero in forte dubbio lo status esoplanetario di Fomalhaut b. Per due ordini di problemi. Il primo era relativo all’apparente variabilità di Fomalhaut b, ritenuta decisiva nella prima pubblicazione scientifica ed attribuita dagli astronomi al famoso disco di accrescimento dei gas attorno all’esomondo. Il secondo problema, anche più serio, era relativo alla presenza di Fomalhaut b ritenuta necessaria per spiegare la presenza dell’anello di detriti, nonostante il suo moto apparente fosse troppo veloce comparato a quello di un pianeta in grado di modellare l’anello dei detriti attorno alla stella madre. Stranamente non fu rilevato neppure dal telescopio spaziale infrarosso Spitzer anche se l’emissione teorica calcolata da Kalas et al., usata per stanare Fomalhaut b, doveva risultare osservabile. Lo studio relativo alla mancata osservazione del telescopio Spitzer, propose un modello alternativo: forse Fomalhaut b non era un pianeta alieno ma una nube di polveri semi-transienti la cui luminosità variabile poteva essere così giustificata. Ma le nuove analisi dei dati originali acquisiti dall’Hubble Space Telescope, fornirono la prova-regina cercata sulla reale identità fisica di Fomalhaut b. Gli astronomi confermarono definitivamente che Fomalhaut b è un oggetto astrofisico reale in orbita attorno alla sua stella, grazie alle osservazioni di HST su tre diverse lunghezze d’onda, una delle quali con un altissimo livello di confidenza. Rispetto agli studi precedenti, gli scienziati sono riusciti a spiegare l’esistenza di questo esomondo in maniera un po’ più semplice. Sarebbe da escludere la variabilità di Fomalhaut b, cercata ma non confermata. Anzi, la luminosità dell’esopianeta sembra costante, il che pare escludere la presenza sia del disco di accrescimento dei gas attorno al pianeta sia della nube di polveri lungo il suo percorso orbitale. Le nuove ricerche hanno calcalato anche la nuova orbita rispetto ai dati preliminari originali di Kalas et al., ma la velocità dell’esomondo risulta compatibile con quella prevista nei modelli. Inoltre, le analisi mostrano quanto fosse improbabile la rilevazione infrarossa di Fomalhaut b e la nuova regola aurea dell’esistenza di esopianeti invisibili all’infrarosso. Lo studio di modelli alternativi ritenuti prossimi alla realtà fisica poi effettivamente osservata, esclude che Fomalhaut b sia legato a nubi di polveri semi-transienti. In base a ciò che si sa sul comportamento delle polveri, ritenute responsabili dell’emissione di Fomalhaut b, e dell’ambiente che circonda la stella Fomalhaut, gli astronomi escludono categoricamente che Fomalhaut b possa essere un grumo di polveri e gas. È un esopianeta alieno a tutti gli effetti. Anche perché le polveri e i gas non sopravviverebbero a lungo in un tale sistema solare. Piuttosto verrebbero inglobati velocemente in un pianeta gassoso massiccio. Questa polvere è la ragione che spiega la prima osservazione diretta di un esomondo alieno come Fomalhaut b, visibile all’HST. Non la sua atmosfera gassosa. Per questo motivo gli scienziati, anche se non è stato ancora provato, preferiscono considerare Fomalhaut b più come un “pianeta identificato da un’immagine diretta” che come “un pianeta fotografato direttamente”. Fatto sta che sistemi solari alieni con pianeti in grado di ospitare la vita potrebbero essere rari se la loro esistenza fosse strettamente connessa alla presenza di fasce di asteroidi della giusta massa, secondo gli astronomi Rebecca Martin dell’Università del Colorado, e Mario Livio dello Space Telescope Science Institute. Nei loro studi suggeriscono che le dimensioni e la posizione di una fascia asteroidale “disegnata” dall’evoluzione del disco di gas e polveri (all’origine dei pianeti) in orbita attorno alla stella e dall’influenza gravitazionale dei vicini giganti gassosi come Giove, potrebbe determinare la complessità delle forme di vita che si evolveranno sui vicini pianeti rocciosi simili alla Terra. Queste analisi suonano sorprendenti perché da sempre gli asteroidi vengono considerati una minaccia a causa del loro alto potenziale distruttivo su un pianeta vitale come la Terra in caso d’impatto cosmico. Un asteroide di appena 10 Km di diametro provocò 65 milioni di anni fa l’estinzione dei dinosauri: il famoso confine KT dell’iridio extraterrestre presente su tutto il pianeta (il confine fisico tra il Cretaceo e il Terziario) è la prova-regina della catastrofe planetaria che si abbattè sulla Terra provocando l’estinzione di massa dei grandi rettili. Ma una nuova visione scientifica propone che le collisioni di asteroidi sui pianeti in formazione, potrebbero accelerare la nascita, lo sviluppo e l’evoluzione della vita complessa. Gli asteroidi, infatti, sono ricchi di acqua, minerali e composti organici che, piovuti sulla Terra primordiale, potrebbero aver innescato la scintilla della vita. Impatti occasionali di asteoridi, secondo una recente teoria, potrebbero aver accelerato il tasso di evoluzione biologica di particolari specie di esseri viventi a danno di altre distrutte sul pianeta, fino al punto da innescare le nuove strategie dell’adattamento e della selezione naturale. Gli astronomi basano le loro conclusioni sull’analisi dei modelli teorici e delle osservazioni finora acquisite, compresi i dati forniti dallo Spitzer Space Telescope della Nasa. I loro studi mostrano che solo una piccola frazione dei sistemi planetari alieni osservati sembrano avere esopianeti giganti nella giusta posizione per alimentare una fascia asteroidale delle giuste dimensioni, offrendo la materia prima grezza per accendere la vita sui vicini pianeti rocciosi del sistema. Le loro analisi sembrano suggerire che il nostro Sistema Solare possa essere piuttosto speciale. Le ricerche sono state pubblicate sul “Monthly Notices of the Royal Astronomical Society: Letters”. I due astronomi sostengono che la posizione di una fascia di asteroidi, relativamente a un pianeta gioviano, non è casuale. Nel nostro Sistema Solare, la fascia principale è situata tra Marte e Giove, in una regione popolata da milioni di rocce spaziali prossime alla “snow line” che segna il confine della zona fredda dove la materia volatile primordiale (acqua e ghiaccio) è sufficientemente lontana dal Sole da rimanere intatta. Quando Giove si formò appena oltre quella “snow line”, il suo potente campo gravitazionale impedì alle rocce della fascia principale di unirsi per formare pianeti. Infatti, l’influenza di Giove provocò la collisione e la frammentazione dei detriti. A questi frammenti di roccia, che non sarebbero mai diventati pianeti, non rimase altro che occupare l’orbita esatta di equilibrio gravitazionale attorno al Sole. Per avere le condizioni ideali del nostro Sistema Solare, secondo gli scienziati, occorre un pianeta gigante gioviano situato appena al di fuori della fascia di asteroidi e migrato di poco, ma non attraverso la fascia. Se un pianeta come Giove si sposta lungo la fascia, potrebbe disperdere le rocce. Se, invece, un pianeta massiccio non migra affatto, la fascia asteroidale si ingigantisce troppo, aumentando così il tasso di bombardamento sui vicini pianeti rocciosi e impedendo alla vita di evolvere. Se si assume il nostro Sistema Solare come modello, le fasce asteroidali negli altri sistemi solari alieni “vitali” dovrebbero essere sempre localizzate approssimativamnente sulla “snow line”. Per verificare la loro teoria, i due astronomi hanno creato modelli di dischi protoplanetari attorno a giovani stelle ed hanno calcolato la posizione della “snow line” in quei dischi basata sulla massa della stella centrale. Hanno poi preso in considerazione tutte le osservazioni infrarosse dello Spitzer Space Telescope su 90 giovani stelle circondate di polveri calde che potrebbero indicare la presenza di una struttura associabile a una fascia di asteroidi. La temperatura delle polveri non solo era consistente con quella della “snow line”, ma i detriti cadevano giusto nella zona calcolata per la “snow line”, confermando la consistenza delle osservazioni con le simulazioni dei due astronomi. Che hanno studiato i dati osservativi di 520 esopianeti giganti scoperti al di fuori del nostro Sistema Solare. Solo 19 esomondi gioviani erano posizionati al di fuori della “snow line”. Questo suggerisce che la maggior parte dei pianeti giganti che possono formarsi al di fuori di quel limite, sono migrati troppo verso l’interno per conservare la tipica cintura di asteroidi leggermente dispersa e necessaria per favorire una maggiore evoluzione della vita su un pianeta simile alla Terra vicino alla cintura. A quanto pare, meno del quattro per cento dei sistemi solari alieni finora osservati potrebbe effettivamente ospitare una cintura di asteroidi compatta. Sulla base di questo scenario “critico” la ricerca della vita complessa sugli altri esomondi di taglia terrestre potrebbe ulteriormente complicarsi in quanto i giganti gassosi gioviani sembrano svolgere un ruolo essenziale nell’evoluzione della vita sui pianeti di taglia terrestre più interni nei sistemi solari extramondo. Ma a 460 anni luce dalla Terra, gli astronomi hanno scoperto un disco protoplanetrio caratterizzato da uno strano spazio vuoto, probabilmente causato dalla presenza di molti esopianeti in via di formazione. La stella attorno a cui orbitano questi giovani e piccoli pianeti è stata chiamata PDS 70. Ha circa 10 milioni di anni ed è grande quasi come il Sole, avendo circa il 90 per cento della sua massa. Questa stella, osservata dall’a struttura discoidale di gas e polveri che circonda le giovani stelle, presenta uno strano “spazio vuoto” scavato tra le polveri e i gas, che divide il disco in due. La gravità di  un singolo pianeta non basterebbe a risucchiare questi materiali volatili fino a produrre questo “vuoto”. Gli astronomi pensano piuttosto che la stella sia la madre di un prolifico sistema planetario alieno in via di formazione. Anche il nostro Sistema Solare è nato da un disco di materiale primordiale 4,6 miliardi di anni fa. I dischi protoplanetari sono di solito molto estesi. Possono arrivare anche a 1000 unità astronomiche dalla stella e risultano particolarmente luminosi quando si tratta di stelle enormi. In questo caso, il disco risulta essere più sottile e meno esteso, circa 140 unità astronomiche. Con il Subaru Telescope situato sulla vetta del vulcano Manua Kea alle Isole Hawaii (Usa), i ricercatori hanno studiato questa giovane stella e i suoi piccoli pianeti. La raccolta dei dati è stata possibile grazie a diverse strumentazioni montate sul telescopio, come l’High Contrast Instrument for the Subaru Next Generation Adaptive Optics (HiCIAO) che ha permesso di indagare nel dettaglio all’interno del disco. L’osservazione di PDS 70 aiuta i ricercatori a immaginare le fattezze del nostro sistema planetario ai suoi albori. Il passo successivo è quello di studiare ogni singolo esopianeta alieno in questo nuovo sistema solare. La Nasa, nel frattempo, celebra le sue due pietre miliari nella ricerca dei mondi alieni simili alla Terra. Non ne è stato trovato finora alcuno ma il Kepler Space Telescope, dopo i suoi primi tre anni e mezzo di missione primaria, potrà continuare per altri quattri anni a scandagliare la stessa fetta di cielo galattico tra le costellazioni del Cigno e della Lira, effettuando il suo specifico “carotaggio” spaziotemporale tra i 600 e i 2.300 anni luce di distanza dalla Terra. Sono stati finora identificati 3.130 esomondi; di questi 2.321 sono pianeti candidati (restre: la nostra Galassia è piena di sistemi planetari perché è un ambiente fecondo. Ma ciò che più sorprende gli scienziati è il fatto che la Natura ami forgiare i pianeti più piccoli di taglia terrestre in modo più efficiente. I limiti di Kepler sono evidenti: non può ossevare nulla entro i 600 anni luce dalla Terra e deve puntare sempre la stessa regione galattica. Ma sono centinaia le super-Terre aliene candidate, finora scoperte, in orbita nella fascia verde dei loro rispettivi sistemi solari. Nessuna risponde esattamente ai requisiti terrestri richiesti, ma i dati acquisiti da Kepler consentono già di fissare alcune regole fondamentali: i pianeti simili alla nostra Terra esistono sicuramente là fuori perché esistono esopianeti di taglia terrestre con un orbita annuale attorno alla loro stella simile al nostro Sole. Le scoperte iniziali di Kepler indicano che almeno un terzo delle stelle del cielo hanno pianeti in orbita e che il numero di pianeti nella nostra Galassia deve essere di miliardi. Ulteriori analisi potrebbero svelare mondi del tutto simili alla Terra già sulla base dei dati preliminari di Kepler che continua a scandagliare contemporaneamente più di 150mila stelle. Lanciato il 6 Marzo 2009, l’Osservatorio spaziale Keplero è alla ricerca attiva di alcuni pianeti abitabili della nostra Galassia, cioè adatti ad ospitare forme di vita aliena. La ricerca di piccoli mondi è iniziata il 12 Maggio 2009. Pochi mesi dopo Kepler osservava i suoi primi cinque esopianeti giganti gassosi, gli “hot Jupiter”, in orbita ravvicinata attorno alle loro stelle. L’ultrasensibile fotometro di Kepler è concepito per rilevare le debolissime variazioni di luminosità stellare indotte dal transito di esopianeti di taglia terrestre. Per gli Extraterrestri, ad esempio, il transito della Terra sul nostro Sole apparirebbe come una fioca dimuzione di luminosità stellare pari solo a 84 parti su un milione. Cioè meno di un centesimo di unità percentuale. La caduta di luminosità di un faro di un’automobile, ad opera di un moscerino, osservata da decine di chilometri di distanza. I transiti esoplanetari conservano molte informazioni sui mondi alieni per determinarne le dimensioni e le caratteristiche fisiche. Noto il periodo orbitale tra i due transiti, la Terza Legge di Keplero può essere applicata per determinare la distanza del pianeta alieno dalla sua stella. Note questa distanza, la temperatura e le dimensioni dell’astro, gli scienziati possono capire se l’esomondo occupa la zona abitabile del sistema solare. I dati acquisiti da Kepler contribuiscono ad espandere le nostre conoscenze sui pianeti e sui sistemi solari alieni. Oggi i Guinness World Record del Telescopio Spaziale Keplero non si contano più. Tutto ha inizio nell’Agosto 2010 quando viene confermata la scoperta del primo sistema esoplanetario multiplo, con più di un pianeta in transito sulla stessa stella “Kepler-9”. Si cominciano a misurare le interazioni gravitazionali tra gli esomondi osservati, attraverso le variazioni nel computo temporale dei loro transiti. Questa nuova potente tecnica consente agli astronomi, in molti casi, di calcolare direttamente le masse degli esopianeti, grazie ai dati di Kepler, senza le lunghe osservazioni richieste dagli osservatori terrestri. Senza il cosiddetto “follow-up”. Nel Gennaio 2011 la Nasa annuncia la scoperta del primo inequivocabile pianeta roccioso al di fuori del nostro Sistema Solare: l’esomondo misura 1,4 volte la Terra e viene chiamato “Kepler-10b”. È il più piccolo pianeta alieno confermato con la misura del raggio e della massa. Vengono poi identificati esopianeti più piccoli, alcuni delle dimensioni di Marte, che provano la predilezione della Natura per i piccoli mondi rocciosi molto comuni nella nostra Galassia. Nel Febbraio 2011 viene scoperto un sistema solare alieno molto affollato e compatto formato da una stella “Kepler-11” con i suoi sei esopianeti più grandi della Terra, tutti in orbita ravvicinata al loro sole, a una distanza inferiore a quella di Venere. Vengono identificati altri sistemi solari simili con esomondi del tutto sconosciuti e, fino a qualche anno fa, protagonisti della sola fantascienza. Oggi sono scienza. Nel Settembre 2011 i dati di Kepler confermano l’esistenza di un mondo alieno con un doppio tramonto come quello visto nella famosa saga di Star Wars, su Tatoine, il pianeta di Luke Skywalker. La scoperta dell’esomondo “Kepler-16b” con due soli, è la prova documentata che la fantascienza ha ragione da vendere. Seguono altre conferme, come quella di ulteriori sei esopianeti in orbita attorno alla stella doppia in questione, a dimostrazione del fatto che i pianeti si formano e si stabilizzano nei sistemi solari doppi e multipli. Nel Dicembre 2011 Kepler annuncia la scoperta del primo esomondo terrestre nella fascia abitabile della stella “Kepler-22”. È grande circa 2,4 volte la Terra, lo chiamano “Kepler-22b”. È il pianeta alieno dal raggio più piccolo mai trovato in orbita attorno a una stella simile al nostro Sole e nella zona verde. Segno che siamo molto prossimi alla scoperta della prima nuova Terra aliena, ad almeno 600 anni luce dalla nostra. La cronaca scientifica di questi mesi è degna di nota. Nel Febbraio 2012 il team di Kepler annuncia di aver osservato più di mille nuovi transiti di pianeti alieni candidati raggiungendo la cifra di 2.321 esomondi. I dati continuano ad essere analizzati e il “trend” verso l’identificazione della copia esatta della Terra procede spedito. I risultati oggi contemplano anche esopianeti dal periodo orbitale superiore ai 365 giorni terrestri, molti dei quali in sistemi multipli stellari e planetari. Il lavoro degli scienziati, grazie all’arruolamento pubblico volontario di migliaia di “Planets Hunters” (ano all’analisi dei dati di Kepler, direttamente dai loro pc e Mac, ha permesso recentemente di identificare per la prima volta un esopianeta in orbita attorno a quattro soli. La Natura è meravigliosamente imprevedibile e sconvolgente. Lascio alla vostra fantasia immaginare un cielo simile su quel lontano mondo alieno. La scoperta di questi esomondi multipli sta rivoluzionando la nostra conoscenza dell’Universo. Quello che pensavamo fino a qualche anno fa, osservando il nostro piccolo Sistema Solare, è consegnato alla storia. Esistono sistemi solari alieni apparentemente “impossibili” anche per la vita così come oggi la concepiamo nella nostra più vicina periferia cosmica? Servono telescopi spaziali più potenti di Kepler, pubblici e privati, per rispondere a questo ed a tanti altri affascinanti quesiti. I sistemi solari con più pianeti e stelle in orbita stabile sui loro rispettivi piani, sono la norma. Con tutte le variazioni al tema. Come una sinfonia cosmica. Kepler, da parte sua, sarà attivo almeno fino al 2016. Una cosa è scientificamente certa. La Terra non è unica, non è speciale, non è il centro dell’Universo. L’estrema varietà e diversità degli esomondi alieni è talmente più grande e normale rispetto a quello che la fantascienza letteraria e cinematografica immaginano, da far riconoscere umilmente ai più grandi scienziati di trovarsi ancora alla scuola dell’infanzia dell’Astronomia Galattica. Aristotele e San Tommaso d’Aquino sarebbero sicuramente fieri dei nostri scienziati che oggi, insieme ai teologi ed ai filosofi, s’interrogano sull’Uomo per cercare di rispondere ai quesiti più importanti del Creato. Quale ruolo giochiamo nell’Universo? Qual è il nostro destino? Esploreremo gli altri mondi? Stiamo evolvendo molto rapidamente, in maniera accelerata. Faremo in tempo a rispondere alle domande fondamentali prima di auto-distruggerci, prima della prossima guerra mondiale?

Nicola Facciolini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *