Flop Sanremo

L’arte sta nel deformare” Ettore Petrolini Beppe Grillo dice (ma la Rai smentisce), che le tre ultime edizioni hanno fatto perdere 20 milioni di denaro pubblico ed i dati sullo share della edizione 2014, ci raccontano di un calo progressivo nonostante l’ottima “amministrazione” di Fazio, la coppia affiata con la Litizzetto, gli ospiti di grande […]

L’arte sta nel deformare”

Ettore Petrolini

Sanremo-2014

Beppe Grillo dice (ma la Rai smentisce), che le tre ultime edizioni hanno fatto perdere 20 milioni di denaro pubblico ed i dati sullo share della edizione 2014, ci raccontano di un calo progressivo nonostante l’ottima “amministrazione” di Fazio, la coppia affiata con la Litizzetto, gli ospiti di grande richiamo ed il meccanismo che funziona in ogni sua parte, compreso il fatto che le canzoni, dei big e dei giovani, sono buone o addirittura molto buone.

Ma è evidente che qualcosa non ha funzionato, poiché, nello specifico, la prima puntata della kermesse ha fatto registrare l’indice di ascolto più basso degli ultimi tempi, appena di poco superiore alla edizione 2010 (targata Clerici). E lo share è sceso nella seconda e nella terza puntata, sfiorando il dato del 2008 che fu per Sanremo l’annus horribilis.

Il picco di ascolti durante la terza serata è stato raggiunto alle 22.07, all’ingresso in scena di Flavio Caroli , mentre alle 23.18 è stato raggiunto il dato più alto in termini di share, con il 46.81%, alla fine dell’esibizione di Renzo Arbore.

Commenta Antonio Verro, membro del cda Rai, su Radio 24: “Il Festival è lento, monotono, la scenografia ansiogena fa tristezza, l’orchestra è nascosta come a dire che la musica non è più centrale. Poi la scelta delle canzoni, quel ripudiare il termine di canzone popolare e orientarsi su canzoni radical-chic non mi piace. Infatti quando poi arrivano Arbore o Baglioni è il tripudio della buona musica”.

Questo per spiegare perché la media ponderata della puntata dedicata al revival (con l’omaggio ad Alberto Manzi, la prima apparizione delle gemelle Kessler, quella della Carrà e di Franca Valeri) era scesa di quasi nove punti rispetto al 2013 segnando il più basso degli ultimi cinque anni e ancora perché non è andato tanto meglio ieri, con una discesa, rispetto allo scorso anno, del 7,4 di share e con un totale di ascolti pari alle edizioni (definite pessime e fallimentari) del 2004, del 2006 e del famigerato 2008.

Le ombre sul festival si allungano minacciose anche a causa di alcune note giornalistiche che parlano di un bluff a proposito della vicenda della prima serata, con un fatto drammatico che però sarebbe nato come una missione costata almeno 1500 euro, studiata a tavolino almeno una settimana prima, quando qualcuno, con una telefonata, ha prenotato due camere, una singola e una tripla, all’hotel Nazionale di via Matteotti, albergo a quattro stelle nell’isola pedonale che porta all’Ariston, 320 euro a notte per ciascuna stanza, senza contare le altre spese vive, oltre ai biglietti, dal costo di 200 euro ciascuno, per entrare in teatro. Fa un mucchio di soldi, scrive il Secolo XIX, per quattro disoccupati senza stipendio, sicché è inevitabile pensare ad un “aiuto” esterno ad esempio da parte della Rai, che però ha smentito fin da subito.

Tornando al Festival in senso più stretto, né il richiamo alla bellezza della prima serata, ne l’amarcord della seconda e terza paiono funzionare, sicché è evidente che non bastano più scenografie da favola, tecnici di prim’ordine, ospiti eccezionali, per far riuscire una manifestazione che, anche con Fazio e Littizzetto, ha il sapore del “dejia vu” e del risaputo o riciclato.

Un guizzo (l’unico vero), il “flash-mob “organizzato” (ma inatteso) tra le poltrone del teatro, che ha colto alla sprovvista pubblico e telespettatori, con un compito signore in abito scuro che si è preso il microfono e si è messo a cantare e poi, il ragazzo della sorveglianza chiamato per allontarnarlo, che si è messo a cantare a sua volta, seguito da una ragazza prima e da altre persone che si uniscono dalla platea.

Emozionanti i momenti con Cat Stevens ed anche, ieri sera, il ricordo di Claudio Abbado ad un mese dalla scomparsa, con sul palco l’Orchestra Filarmonica del Teatro la Fenice diretta dal maestro Diego Matheuz, il giovane talento venezuelano che ha collaborato con il maestro, in un brano di Mozart.

Emozionante ascoltare De Andrè cantato da Ligabue ed accompagnato da Mauro Pagani, ma troppo poco per sorreggere serate della durata infinita.

Il monologo sulla bellezza a sipario chiuso, Dergin Tokmak, ballerino e acrobata tedesco, diventato famoso per le performance con le stampelle sono numeri in fondo patetici e risaputi e troppo breve è la sorpresa creata dai Shai Fishman and the Cappella All Stars, gruppo israeliano che si esibisce in tutto il mondo utilizzando solo le voci per costruire melodie, canzoni e ritmica (beat box) riproducendo i suoi di una intera orchestra, per far si che la serata possa dirsi ben riuscita.

Insomma un festival banale, scontato, buonista, ben rappresentato dall’ospite astronauta Luca Parmitano, che dice (come se la cosa fosse nuova o originale) che guardando la Terra dallo spazio si è reso conto che i confini non esistono, ma li abbiamo creati noi” e da Damien Rice , intenso cantautore irlandese che suona e canta i due suoi brani più noti (‘Cannonball’ e ‘The Blower’s Daughter”), ma lo fa con vestimenti stereotipati, quelli che lo identificano come icona: t-shirt strappata, giacca di panno e pantaloni sdruciti , come si conviene ad un vero artista rock assurto però ad eroe di un mondo che di rock non ha proprio più niente.

Sanremo, anche con Fazio, è convenzione noisa e popolare, che ci fa capire quanto lo spettacolo di varietà sia lontano sia da Petrolini che dalla sospensione tragica in cui “si palesa quanto non può né deve essere detto: l’immediato apparire, la pura presenza, l’eterno ritorno” di Carmelo Bene.

“Noi siamo e non rappresentiamo”, dicono i manifesti dei nuovi interpreti del varietà che rivendicano l’esigenza di una presenza soggettiva che, invece, è del tutto stravolta per una oggettività risaputa e pacifcante, noiosa ed anodina, come quella che si palesa a Sanremo.

Nel 1913, Martinetti, così scriveva nel manifesto del Teatro di Varietà “Il teatro di Varietà è il solo che utilizzi la collaborazione del pubblico; questo non rimane statico, a guardare, ma partecipa rumorosamente all’azione, cantando, accompagnando l’orchestra, comunicando con motti imprevisti e dialoghi bizzarri con gli attori. Il pubblico collabora con la fantasia degli attori, l’azione si svolge contemporaneamente sul palcoscenico, nei palchi e nella platea…”.

Con la televisione tutto, anche il Festival di Sanremo, ritorna ottocentesco, con il pubblico solo apparentemente coinvolto, ma in realtà passivamente escluso e fruitore silenzioso di ciò che si aspetta e non può né deve sorprenderlo.

 Carlo Di Stanislao

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