Il Viaggio nel Tempo, il Pianeta X e la Supernova cataclismatica cosmica ASASSN15lh

“Il mondo è un libro e quelli che non viaggiano ne leggono solo una pagina” (Sant’Agostino). Oggi qui, domani altrove. Il viaggio nel tempo, tra diverse epoche temporali, inteso in maniera analoga al viaggio tra diversi punti dello spazio è, da sempre, un argomento che affascina l’immaginario, tant’è che lo si riscontra frequentemente sia nella […]

“Il mondo è un libro e quelli che non viaggiano ne leggono solo una pagina” (Sant’Agostino). Oggi qui, domani altrove. Il viaggio nel tempo, tra diverse epoche temporali, inteso in maniera analoga al viaggio tra diversi punti dello spazio è, da sempre, un argomento che affascina l’immaginario, tant’è che lo si riscontra frequentemente sia nella letteratura sia nella cinematografia, presente in molti miti, come la saga di mago Merlino. La “macchina del tempo” classica, a cui il cinema e le storie di fantascienza hanno abituato il pubblico, è solitamente rappresentata come una sorta di veicolo o apparecchio nel quale si entra, per isolarsi dal resto dell’Universo, si configurano i parametri di viaggio e si aziona un comando di partenza, svanendo apparentemente nel nulla tra mille scintillanti riflessi di luce. Dopo pochi secondi si può uscire e ci si ritrova nel momento esatto impostato. Sì, ma “dove”? Tutti ricordano il celebre romanzo “L’uomo che visse nel futuro” di H.G. Wells, il 17 Agosto 1960 genialmente immortalato nella pellicola “The Time Machine” (99 min.) di George Pal. Quando il protagonista del viaggio, l’inventore George (l’attore Rod Taylor), si siede al comando della sua nuova creazione, ha “tutto il tempo che vuole”. Ha inventato una vera macchina del tempo. Persino un modellino dimostrativo sul quale spedisce, tra la meraviglia dei suoi gentili ospiti, un sigaro chissà “quando”! Sì perchè, come spiega George, il “dove” è chiaro, è sotto i loro stessi occhi: la sua abitazione londinese. Siamo nel 1899. Alla vigilia del nuovo XX Secolo, il peggiore di sempre nella storia dell’Umanità. La sua “macchina” proietta George nei tempi oscuri delle devastazioni per la “guerra atomica” del Novecento, fino all’anno 802701. In questa era remota, la passiva razza umana degli Eloi che vive in superfice tra le rovine della civiltà, dove i libri della vecchia biblioteca si consumano nella polvere, ha davanti un futuro sinistro, come possibile preda dei carnivori Morlock, esseri dagli occhi infuocati, mutanti retaggio delle radiazioni nucleari, che vivono sottoterra, nutrendo gli Eloi. A meno che, secondo Wells, dai meandri del passato non intervenga lo straniero che viaggia nel tempo, modificando la storia. La fantastica avventura “The Time Machine”, ricca di immagini straordinarie e inedite, dalla distruzione nucleare di Londra ad opera di “satelliti atomici”, accompagnata da spettacolari eruzioni vulcaniche e colate di lava, fino al suggestivo carosello del viaggio del tempo, valsero un Oscar al regista Pal. Naturalmente l’esploratore George incontrerà di nuovo gli amici, il 5 Gennaio 1900, raccontando la sua avventura. Nulla a che spartire con il film di Simon Wells del 2002. Fin qui la fantasia. Da un punto di vista scientifico, la Teoria della Relatività ristretta di Einstein, lascia la porta aperta alla ipotesi dello spostamento nel futuro grazie al fenomeno della “dilatazione del tempo”. Ma poiché questo è vincolato dal principio di causa-effetto, ha poco in comune con l’accezione comune del concetto di “viaggio” nel tempo, anche se prove sperimentali dimostrano che lo “scorrere del tempo non è universale”. Come previsto dalla Relatività ristretta, esso varia per osservatori in differente stato di moto l’uno rispetto all’altro. Tuttavia, anche se alcune speculazioni scientifiche in passato sembravano ammetterne la possibilità, attraverso condizioni estreme impossibili da realizzare con le tecnologie attualmente disponibili, l’Istituto Sistemi Complessi del Cnr, in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma e l’Università di L’Aquila, grazie a un finanziamento della John Templeton Foundation, pare abbia dimostrato che lo scorrere del tempo non può essere invertito, neppure in sistemi quantistici. Dai risultati della ricerca guidata da Claudio Conti, direttore dell’Isc-Cnr, pubblicati su Scientific Reports, appare chiaro che almeno per quanto riguarda il sogno di “tornare indietro nel tempo”, questo è sicuramente sfumato essendo stato provato sperimentalmente che la “freccia del tempo” nel nostro Universo “punta” solo verso il futuro. “Uno dei problemi principali della fisica moderna è spiegare perché il tempo va solo in avanti, e non si può tornare indietro – osserva Conti – la meccanica quantistica non fornisce nessuna indicazione sul perché i fenomeni naturali siano irreversibili. Consideriamo un pendolo messo a testa in giù: nella nostra esperienza quotidiana sappiamo che, dopo qualche istante, l’asta cadrà e non ritornerà più su. Ciò non era mai stato verificato per un pendolo quantistico, cioè una particella come un fotone o un elettrone che si muove intorno al proprio nucleo: diciamo che si ha un pendolo inverso quando queste particelle decadono, cioè si scompongono in particelle differenti e, si dice in fisica, vanno all’infinito, in un certo senso, spariscono”. La ricerca svolta è basata sulle teorie introdotte nel 1986 da Roy Glauber, premio Nobel per la Fisica, riguardanti la meccanica quantistica irreversibile, versione della meccanica quantistica che include i fenomeni irreversibili, cioè spiega perché il tempo scorre in una sola direzione. La teoria di Glauber ipotizza che il decadimento degli “oscillatori inversi quantistici” possa avvenire solo a determinate velocità, ma poiché le trasformazioni sono irreversibili, la particella, una volta decaduta, non può più riformarsi. Fino a oggi, però, non ci sono state verifiche dirette. I ricercatori del Cnr hanno ora scoperto che un fascio laser può simulare un particolare sistema quantistico irreversibile, il “pendolo invertito”, ed i risultati sperimentali sembrano confermare le predizioni teoriche della teoria. Da qui l’assunto che non si può tornare indietro nel tempo. “Nessuno prima d’ora aveva mai testato empiricamente questa teoria. Per simulare un oscillatore di Glauber – spiega Conti – abbiamo fatto passare un raggio luminoso attraverso un liquido fototermico. Il liquido assorbe la luce e la defocalizza rendendola simile a un oscillatore quantistico invertito e rende più facile individuare la quantizzazione dei decadimenti. Avendo ottenuto questa prova sperimentale, possiamo affermare che la teoria è verificata, anche per quanto riguarda la freccia del tempo”, asserisce Conti che specifica come la ricerca “oltre al suo valore intrinseco, apre nuove prospettive per lo sviluppo di tecnologie di più immediata applicazione, ad esempio nel campo della Fotonica, come nuovi tipi di laser per la Medicina e microscopi ad altissima risoluzione”. Mentre l’astronomo russo Konstantin Batygin crede che il pianeta scoperto insieme al collega Michael Brown, sia “l’ultimo corpo celeste del Sistema Solare”. Konstantin Batygin, teorico del nono pianeta, distante dal Sole 274 volte in più rispetto alla Terra, pensa che sia l’ultimo vero pianeta nostro Sistema. La comunicazione del Caltech è lapalissiana: “l’astronomo russo Konstantin Batygin e il suo collega americano Michael Brown hanno annunciato di essere riusciti a calcolare la posizione del misterioso pianeta X. Il Nono, o il Decimo, se si considera Plutone, dei pianeti del Sistema Solare, è distante dal Sole 41 miliardi di chilometri e ha un peso 10 volte maggiore della Terra”. Non solo. “Per la prima volta dopo 150 anni abbiamo prove reali di aver completato il censimento dei pianeti del Sistema Solare”, dichiara Batygin. Questa scoperta, raccontano i due scienziati, è stata compiuta grazie alla individuazione di due pianeti nani ultra lontani, “2012VP113” e “V774104”, di misure simili a Plutone, distanti dal Sole circa 12 e 15 miliardi di chilometri. Questi pianeti sono stati scoperti da Chad Trujillo dell’Osservatorio Gemini nelle Isole Hawaii (Usa), allievo di Brown, che ha condiviso con il maestro e Batygin le proprie osservazioni, suggerendo la “stranezza nel movimento del planetoide 2012VP113”, ribattezzato “Biden”, e di un’intera serie di oggetti della Fascia di Kuiper. L’analisi delle orbite di questi oggetti ha dimostrato che su tutti loro agisce un grande corpo celeste, che attrae le orbite di questi pianeti nani e asteroidi in una direzione precisa, uguale per almeno sei oggetti dell’elenco di Trujillo. Inoltre, le orbite di questi sono inclinate rispetto all’ellittica con uno stesso angolo di circa 30 gradi. Gli scienziati spiegano questa “coincidenza” paragonandola alle lancette di un orologio che si muovono a diversa velocità e indicano lo stesso minuto in qualsiasi momento li guardiate. La probabilità di un simile risultato è dello 0,007 percento e mostra che le orbite degli oggetti della Fascia di Kuiper non sono state attratte per caso. A dirigerle è stato un grande pianeta situato lontano oltre l’orbita di Plutone. I calcoli di Batygin mostrano i dati di questi pianeti: la loro massa è 5000 volte quella di Plutone, e ciò con ogni probabilità significa che si tratta di un gigante gassoso simile a Nettuno. Un anno su questo mondo lontano dura circa 15mila anni terrestri. Il pianeta si muove su un’insolita orbita: il suo perigeo, il punto di massimo avvicinamento al Sole, si trova in quella zona del Sistema Solare dove tutti gli altri pianeti hanno l’afelio, il punto di massima distanza dal nostro luminare. Tale orbita paradossalmente stabilizza la Fascia di Kuiper, evitando che i suoi oggetti si scontrino tra di loro. Finora gli astronomi non sono riusciti a osservare il “nono pianeta” a causa della sua distanza dal Sole. Ciò nonostante Batygin e Brown credono che questo avverrà nei prossimi 5 anni, quando la sua orbita sarà calcolata con maggiore precisione. Nessuno l’ha mai visto, non ancora. Ma i due ricercatori che hanno firmato lo studio, Konstantin Batygin e Mike Brown del Californian Institute of Technology, assicurano che le prove, questa volta, ci sono. Prove dell’esistenza, niente meno, di un nuovo pianeta ai confini del Sistema Solare! Battezzato in fretta e furia “Planet Nine”, il nuovo arrivato, se davvero ne sarà confermata l’esistenza, il condizionale è più che mai d’obbligo, non sarà un oggettino in bilico fra grosso asteroide e pianeta nano, tutt’altro. Se i calcoli sono corretti, è un mondo extra-large, un gigante con una massa pari a grosso modo 10 volte quella della Terra. Insomma, un mondo la cui stazza è assai più simile a quella di Urano e Nettuno, che non a quella del declassato Plutone. “Questo sarebbe un vero e proprio nono pianeta. Dall’antichità a oggi sono stati scoperti solo due veri nuovi pianeti – osserva Brown – e questo sarebbe il terzo. Si tratta di un tassello piuttosto importante del nostro Sistema Solare che ancora ci sfugge, il che è alquanto eccitante”. Un mondo remoto in tutti i sensi, il Planet Nine, la cui orbita sarebbe circa 20 volte più lontana dal Sole di quanto non sia quella di Nettuno che pure viaggia alla bellezza di circa quattro miliardi e mezzo di Km di distanza dalla nostra stella, e un anno, lassù, durerebbe non meno di 10mila anni terrestri. Ma se ancora nessun telescopio è riuscito a individuarlo, di che prove stiamo parlando? Dei risultati di modelli matematici e simulazioni al computer, spiegano i due ricercatori. Modelli messi a punto per spiegare le orbite anomale di alcuni oggetti osservati nella Fascia di Kuiper, sei in particolare. Costretti via via a escludere ipotesi meno rivoluzionarie, come la presenza di un corpo di dimensioni minori, a Batygin e Brown, per far tornare i conti, non è rimasto che prendere in considerazione l’ipotesi di un nuovo pianeta gigante. E i conti hanno cominciato a tornare! Così lavora la Scienza, sempre pronta mettere in discussione se stessa. “Benché all’inizio fossimo alquanto scettici circa la possibilità che questo pianeta potesse esistere, continuando a indagare la sua orbita e a valutare cosa significherebbe per il Sistema Solare esterno, ci siamo sempre più convinti che sia proprio là fuori – rivela Batygin – per la prima volta in oltre 150 anni, ci sono prove solide secondo le quali il censimento planetario del Sistema Solare è incompleto”. Lo studio “Evidence for a Distant Giant Planet in the solar system” di Konstantin Batygin e Michael E. Brown, è uscito su Astronomical Journal. La palla passa ora ai telescopi, a partire dai giganti hawaiiani della classe dei 10 metri di diametro, Keck e Subaru. “Certo, sarei entusiasta di trovarlo – confida Brown a proposito del “mitico” Pianeta X – ma sarei comunque felicissimo anche se a trovarlo fosse qualcun altro. È per questo che abbiamo pubblicato il nostro articolo: speriamo che altre persone ne traggano ispirazione per mettersi a cercare”. Per questo pubblichiamo anche la versione inglese della prima notizia dell’anno nuovo AD 2016: “Caltech researchers have found evidence of a giant planet tracing a bizarre, highly elongated orbit in the outer solar system. The object, which the researchers have nicknamed Planet Nine, has a mass about 10 times that of Earth and orbits about 20 times farther from the sun on average than does Neptune (which orbits the sun at an average distance of 2.8 billion miles). In fact, it would take this new planet between 10,000 and 20,000 years to make just one full orbit around the sun. The researchers, Konstantin Batygin and Mike Brown, discovered the planet’s existence through mathematical modeling and computer simulations but have not yet observed the object directly. “This would be a real ninth planet”, says Brown, the Richard and Barbara Rosenberg Professor of Planetary Astronomy. “There have only been two true planets discovered since ancient times, and this would be a third. It’s a pretty substantial chunk of our solar system that’s still out there to be found, which is pretty exciting”. Brown notes that the putative ninth planet-at 5,000 times the mass of Pluto-is sufficiently large that there should be no debate about whether it is a true planet. Unlike the class of smaller objects now known as dwarf planets, Planet Nine gravitationally dominates its neighborhood of the solar system. In fact, it dominates a region larger than any of the other known planets-a fact that Brown says makes it “the most planet-y of the planets in the whole solar system”. Batygin and Brown describe their work in the current issue of the Astronomical Journal and show how Planet Nine helps explain a number of mysterious features of the field of icy objects and debris beyond Neptune known as the Kuiper Belt. “Although we were initially quite skeptical that this planet could exist, as we continued to investigate its orbit and what it would mean for the outer solar system, we become increasingly convinced that it is out there”, says Batygin, an assistant professor of planetary science. “For the first time in over 150 years, there is solid evidence that the solar system’s planetary census is incomplete”. The road to the theoretical discovery was not straightforward. In 2014, a former postdoc of Brown’s, Chad Trujillo, and his colleague Scott Sheppard published a paper noting that 13 of the most distant objects in the Kuiper Belt are similar with respect to an obscure orbital feature. To explain that similarity, they suggested the possible presence of a small planet. Brown thought the planet solution was unlikely, but his interest was piqued. He took the problem down the hall to Batygin, and the two started what became a year-and-a-half-long collaboration to investigate the distant objects. As an observer and a theorist, respectively, the researchers approached the work from very different perspectives-Brown as someone who looks at the sky and tries to anchor everything in the context of what can be seen, and Batygin as someone who puts himself within the context of dynamics, considering how things might work from a physics standpoint. Those differences allowed the researchers to challenge each other’s ideas and to consider new possibilities. “I would bring in some of these observational aspects; he would come back with arguments from theory, and we would push each other. I don’t think the discovery would have happened without that back and forth”, says Brown. “It was perhaps the most fun year of working on a problem in the solar system that I’ve ever had”. Fairly quickly Batygin and Brown realized that the six most distant objects from Trujillo and Sheppard’s original collection all follow elliptical orbits that point in the same direction in physical space. That is particularly surprising because the outermost points of their orbits move around the solar system, and they travel at different rates. “It’s almost like having six hands on a clock all moving at different rates, and when you happen to look up, they’re all in exactly the same place”, says Brown. The odds of having that happen are something like 1 in 100, he says. But on top of that, the orbits of the six objects are also all tilted in the same way-pointing about 30 degrees downward in the same direction relative to the plane of the eight known planets. The probability of that happening is about 0.007 percent. “Basically it shouldn’t happen randomly”, Brown says. “So we thought something else must be shaping these orbits”. The first possibility they investigated was that perhaps there are enough distant Kuiper Belt objects-some of which have not yet been discovered-to exert the gravity needed to keep that subpopulation clustered together. The researchers quickly ruled this out when it turned out that such a scenario would require the Kuiper Belt to have about 100 times the mass it has today. That left them with the idea of a planet. Their first instinct was to run simulations involving a planet in a distant orbit that encircled the orbits of the six Kuiper Belt objects, acting like a giant lasso to wrangle them into their alignment. Batygin says that almost works but does not provide the observed eccentricities precisely. “Close, but no cigar”, he says. Then, effectively by accident, Batygin and Brown noticed that if they ran their simulations with a massive planet in an anti-aligned orbit-an orbit in which the planet’s closest approach to the sun, or perihelion, is 180 degrees across from the perihelion of all the other objects and known planets-the distant Kuiper Belt objects in the simulation assumed the alignment that is actually observed. “Your natural response is ‘This orbital geometry can’t be right. This can’t be stable over the long term because, after all, this would cause the planet and these objects to meet and eventually collide’,” says Batygin. But through a mechanism known as mean-motion resonance, the anti-aligned orbit of the ninth planet actually prevents the Kuiper Belt objects from colliding with it and keeps them aligned. As orbiting objects approach each other they exchange energy. So, for example, for every four orbits Planet Nine makes, a distant Kuiper Belt object might complete nine orbits. They never collide. Instead, like a parent maintaining the arc of a child on a swing with periodic pushes, Planet Nine nudges the orbits of distant Kuiper Belt objects such that their configuration with relation to the planet is preserved. “Still, I was very skeptical”, says Batygin. “I had never seen anything like this in celestial mechanics”. But little by little, as the researchers investigated additional features and consequences of the model, they became persuaded. “A good theory should not only explain things that you set out to explain. It should hopefully explain things that you didn’t set out to explain and make predictions that are testable”, says Batygin. And indeed Planet Nine’s existence helps explain more than just the alignment of the distant Kuiper Belt objects. It also provides an explanation for the mysterious orbits that two of them trace. The first of those objects, dubbed Sedna, was discovered by Brown in 2003. Unlike standard-variety Kuiper Belt objects, which get gravitationally “kicked out” by Neptune and then return back to it, Sedna never gets very close to Neptune. A second object like Sedna, known as 2012 VP113, was announced by Trujillo and Sheppard in 2014. Batygin and Brown found that the presence of Planet Nine in its proposed orbit naturally produces Sedna-like objects by taking a standard Kuiper Belt object and slowly pulling it away into an orbit less connected to Neptune. But the real kicker for the researchers was the fact that their simulations also predicted that there would be objects in the Kuiper Belt on orbits inclined perpendicularly to the plane of the planets. Batygin kept finding evidence for these in his simulations and took them to Brown. “Suddenly I realized there are objects like that”, recalls Brown. In the last three years, observers have identified four objects tracing orbits roughly along one perpendicular line from Neptune and one object along another. “We plotted up the positions of those objects and their orbits, and they matched the simulations exactly”, says Brown. “When we found that, my jaw sort of hit the floor”. “When the simulation aligned the distant Kuiper Belt objects and created objects like Sedna, we thought this is kind of awesome-you kill two birds with one stone”, says Batygin. “But with the existence of the planet also explaining these perpendicular orbits, not only do you kill two birds, you also take down a bird that you didn’t realize was sitting in a nearby tree”. Where did Planet Nine come from and how did it end up in the outer Solar System? Scientists have long believed that the early solar system began with four planetary cores that went on to grab all of the gas around them, forming the four gas planets-Jupiter, Saturn, Uranus, and Neptune. Over time, collisions and ejections shaped them and moved them out to their present locations. “But there is no reason that there could not have been five cores, rather than four”, says Brown. Planet Nine could represent that fifth core, and if it got too close to Jupiter or Saturn, it could have been ejected into its distant, eccentric orbit. Batygin and Brown continue to refine their simulations and learn more about the planet’s orbit and its influence on the distant solar system. Meanwhile, Brown and other colleagues have begun searching the skies for Planet Nine. Only the planet’s rough orbit is known, not the precise location of the planet on that elliptical path. If the planet happens to be close to its perihelion, Brown says, astronomers should be able to spot it in images captured by previous surveys. If it is in the most distant part of its orbit, the world’s largest telescopes-such as the twin 10-meter telescopes at the W. M. Keck Observatory and the Subaru Telescope, all on Mauna Kea in Hawaii-will be needed to see it. If, however, Planet Nine is now located anywhere in between, many telescopes have a shot at finding it. “I would love to find it”, says Brown. “But I’d also be perfectly happy if someone else found it. That is why we’re publishing this paper. We hope that other people are going to get inspired and start searching”. In terms of understanding more about the Solar System’s context in the rest of the Universe, Batygin says that in a couple of ways, this ninth planet that seems like such an oddball to us would actually make our solar system more similar to the other planetary systems that astronomers are finding around other stars. First, most of the planets around other sunlike stars have no single orbital range-that is, some orbit extremely close to their host stars while others follow exceptionally distant orbits. Second, the most common planets around other stars range between 1 and 10 Earth-masses. “One of the most startling discoveries about other planetary systems has been that the most common type of planet out there has a mass between that of Earth and that of Neptune”, says Batygin. “Until now, we’ve thought that the solar system was lacking in this most common type of planet. Maybe we’re more normal after all”. Brown, well known for the significant role he played in the demotion of Pluto from a planet to a dwarf planet adds, “All those people who are mad that Pluto is no longer a planet can be thrilled to know that there is a real planet out there still to be found”, he says. “Now we can go and find this planet and make the solar system have nine planets once again”. The paper is titled “Evidence for a Distant Giant Planet in the Solar System”, writes Kimm Fesenmaier. La Scienza, infatti, non è mai una questione di Fede. Ma senza la fede la Scienza non può esistere. Nè la tecnologia per varare la prima vera astronave interstellare, per verificare in situ la scoperta. Senza la fede, siamo già estinti. La notizia della possibile presenza ben oltre l’orbita di Nettuno di un nono pianeta con la “p” maiuscola, ovvero uno che soddisfi tutti i requisiti riformulati qualche anno fa dalla IAU, quelli stessi che invece declassarono Plutone, sta rimbalzando un po’ ovunque in tutto il mondo. Sarà il prossimo obiettivo della sonda New Horizons della Nasa? L’articolo dei ricercatori del Caltech Konstantin Batygin e Mike Brown, tutto teorico e basato su simulazioni al calcolatore, sostanzialmente afferma che “non può non esserci” un oggetto celeste della massa pari a dieci Terre, e che si possa trovare a una distanza dal Sole di circa 20 volte superiore a quella che compete a Nettuno. Tradotto in altri termini, il nono pianeta orbiterebbe a 90 miliardi di chilometri dal Sole. Il “nostro” Sistema Solare è diventato di colpo più grande, come la Terra ai tempi di Cristoforo Colombo? “L’articolo, molto tecnico, descrive le idee, le simulazioni e i risultati dello studio teorico portato avanti da Konstantin Batygin e Mike Brown. Da un paio di anni – osserva Giovanni Valsecchi, ricercatore Inaf all’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali di Roma, esperto di meccanica celeste – nella comunità scientifica che si occupa della parte esterna del Sistema Solare si sta cercando di capire se una certa concentrazione di alcuni dei parametri che descrivono le orbite degli oggetti più esterni della cosiddetta Fascia di Kuiper, al di là della regione planetaria, abbia una causa fisica o no. La filosofia generale del lavoro è simile a quella che ha portato alla scoperta di Nettuno. L’idea che sta dietro l’articolo è quella di incitare la comunità astronomica a cercare il pianeta di cui loro parlano. Se questo pianeta esistesse veramente, avrebbe anche delle conseguenze su quello che noi conosciamo riguardo alla parte più interna della Nube di Oort, perché questo pianeta si troverebbe fra la zona di confine della regione planetaria e la Nube di Oort interna”. Sappiamo già che ci sono diversi corpi celesti oltre l’orbita di Nettuno e Plutone. Ma sembrava difficile che potessero essercene di grandi come quello annunciato nel lavoro di Batygin e Mike Brown. “In effetti i ricercatori parlano di un pianeta di una decina di masse terrestri. Un valore interessante perché nel Sistema Solare – ricorda Valsecchi – abbiamo 4 pianeti interni, di cui il più grande è la Terra, e che hanno masse terrestri, come la Terra e Venere, o inferiori, come Mercurio e Marte; e 4 pianeti esterni, con i 2 giganti gassosi, Giove e Saturno che hanno fino a 300 masse terrestri e sono composti soprattutto da gas concentrati attorno a un nucleo solido, e poi Urano e Nettuno, ben più piccoli di Saturno e Giove, ma comunque molto più grandi della Terra, intorno alla ventina di masse terrestri. Nel Sistema Solare – rileva Valsecchi – sembra esserci un vuoto in questo intervallo di masse. È curioso, invece, che nei sistemi extrasolari che si stanno scoprendo, questa regione di masse è tutt’altro che vuota, anzi sono stati scoperti moltissimi oggetti con masse dalle 5 alle 10 volte quella della Terra. Se anche il Sistema Solare avesse un pianeta di 10 masse terrestri e in un’orbita così curiosa e così diversa da quelle dei pianeti che siamo abituati a considerare, certo sarebbe una scoperta non da poco”. Ma allora, se c’è veramente un oggetto di questa taglia, seppure a distanze così elevate, com’è possibile che nonostante i nostri super telescopi da terra e dallo spazio non lo abbiamo ancora scovato, e dobbiamo affidarci a predizioni per aiutarci per immortalarlo definitivamente? “La copertura del cielo da parte di telescopi potenti è oggi molto più accurata e più completa, ma non bisogna trascurare vari aspetti. Ad esempio – rivela Valsecchi – questo oggetto potrebbe esistere già, magari è stato già osservato e anche scartato in passato. Oggi c’è una grande copertura del cielo, sia per scoprire oggetti fuori dal Sistema Solare sia per scoprire asteroidi che posso passare vicino alla Terra. Di solito dietro il telescopio non c’è un uomo, bensì una macchina e quindi un calcolatore abituato a filtrare tutta una serie di individuazioni di oggetti che non sono l’obiettivo della ricerca in corso. Potrebbe succedere in futuro, nel caso venisse confermata l’esistenza del pianeta, di ritrovare la sua posizione su immagini prese ed archiviate senza notarlo”. Dalla teoria bisognerà poi passare alla pratica, ovvero confermare o smentire l’esistenza del pianeta. In che modo? “Su questo fondamentale aspetto vedo tre possibili linee d’azione. La più ovvia – rimarca Valsecchi – è quella di andare a cercare il pianeta, perché, per quanto vaga sia l’indicazione fornita dall’articolo, comunque c’è una striscia di cielo dove si potrebbe trovare questo oggetto. Si potrebbe poi riesaminare la stessa linea di cielo in tutte le immagini già prese negli scorsi decenni. Infine, è necessario capire se l’esistenza di questo nono pianeta ha delle conseguenze finora mai immaginate su ciò che conosciamo del Sistema Solare esterno, quindi sugli oggetti transnettuniani e sulle comete della Nube di Oort. Bisognerebbe rivedere i calcoli e le simulazioni fatti finora”. I record sono fatti per essere battuti, questa sembra essere l’impressione, ma difficilmente essi vengono superati  così ampiamente. Un altro team internazionale di scienziati, coordinato da  Subo Dong (Kavli Institute for Astronomy and Astrophysics, Peking University) e che include l’astrofisico italiano Gianluca Masi, responsabile scientifico del Virtual Telescope Project (www.virtualtelescope.eu), ha annunciato sulla prestigiosa rivista “Science” la scoperta di un’esplosione cosmica oltre 200 volte più potente di una tipica Supernova, eventi che già si collocano tra i più violenti cataclismi nell’Universo, e oltre due volte più luminosa della precedente Supernova detentrice del record. “ASASSN-15lh è la più luminosa supernova mai scoperta nella storia dell’uomo – dichiara Subo Dong – i meccanismi dell’esplosione restano avvolti nel mistero, considerata l’immensa quantità di energia che essa ha riversato nello spazio”. La sorgente, denominata ASASSN-15lh e collocata nella costellazione australe di Indus (“Indiano”) in direzione della galassia APMUKS(BJ) B215839.70-615403.9, è stata individuata lo scorso 14 Giugno 2015 da una coppia di telescopi gemelli da 14 cm installati a Cerro Tololo in Cile, parte della “All Sky Automated Survey for SuperNovae” (ASAS-SN), un progetto internazionale dedicato proprio alla ricerca sistematica di fenomeni transienti, coordinato dalla Ohio State University (Usa). Non è una “Supernova assassina” come titolano gli articoli per profani finora pubblicati, ma poco ci manca. “ASAS-SN è il primo progetto astronomico nella storia ad esaminare frequentemente l’intero cielo in ottico, alla ricerca di transienti” – osserva Krzysztof Stanek, professore di Astronomia alla Ohio State University e  co-Principal Investigator del progetto ASAS-SN. ASASSN-15lh è stata segnalata alla comunità scientifica il 16 Giugno, attraverso un telegramma astronomico ATel #7642, motivando ulteriori indagini. Sono state rinvenute foto di prescoperta risalenti a Maggio 2015. Tra Giugno e Luglio, il team di studiosi otteneva dati spettroscopici, impiegando anche il telescopio du Pont da 2.5 metri di Las Campanas (Cile) e il South African Large Telescope da 10 metri: le osservazioni suggerivano la natura dell’astro, una Supernova super-luminosa, povera in contenuto di Idrogeno (super-luminous supernovae, SLSNe-I) la cui distanza è stata stimata in circa 3.8 miliardi di anni luce. ASASSN-15lh è risultata essere oltre due volte più luminosa di tutte le sorgenti simili finora scoperte: nel momento del picco di emissione, la sua luminosità era equivalente a quella di 570 miliardi di stelle come il Sole, venti volte l’intera emissione della “nostra” Via Lattea. Le osservazioni suggeriscono che si tratti di un caso estremo tra i corpi celesti di quella rarissima popolazione. “Se ASASSN-15lh si fosse trovata alla distanza di Sirio, la stella più luminosa nel cielo notturno, situata a 8.5 anni luce da noi – rivela Gianluca Masi – “l’avremmo vista brillare con una luminosità apparente pari a quella del Sole”. Poco prima di estinguerci, a causa dell’intenso flusso di radiazioni! La ASASSN-15lh ha irradiato qualcosa come (1.1 ± 0.2) × 10E52 ergs, sfidando l’energia delle stelle Magnetar. Anche lo studio della galassia ospite ha fornito non poche sorprese. Essa appare di massa ben superiore a quella tipica delle galassie che hanno ospitato sorgenti comparabili, anche se non si può escludere che la galassia ospite sia una “nana” vicina alla presunta e più larga “dimora” cosmica. L’interpretazione fisica di ASASSN-15lh è senza dubbio complessa e non possibile attraverso i tradizionali meccanismi invocati per le Supernovae ordinarie. “La sorgente di una tale esplosione – osserva Gianluca Masi – non è nota. La carenza di Idrogeno o Elio suggerisce che non si possa considerare un meccanismo di interazione (shock) con materiale circumstellare ricco di Idrogeno per interpretare le SLSNe-I e la ASASSN-15lh. Il tasso di declino dopo il massimo per le SLSNe-I appare troppo rapido per poter essere spiegato con il decadimento radioattivo del Nickel-56 che è invece fondamentale nelle ordinarie Supernovae di tipo Ia. Stimiamo che occorrerebbero non meno di 30 masse solari di Nikel-56 per ottenere la luminosità di picco di ASASSN-15lh; probabilmente ulteriori osservazioni chiariranno questo punto”. Una possibilità potrebbe essere che il rallentamento di una stella di neutroni rapidamente rotante, dotata di elevato campo magnetico (Magnetar) alimenti questa straordinaria emissione, per quanto le energie in gioco rilevate appaiano comunque elevate. Supernovae come la ASASSN-15lh potrebbero essere innescate dalla morte di stelle incredibilmente massive, che vanno oltre i limiti di massa ritenuti da molti astronomi come plausibili. ASASSN-15lh rappresenta indubbiamente un caso scientifico senza precedenti. Ulteriori studi sono in corso per valutare eventuali connessioni con altri fenomeni astrofisici quali, ad esempio, i nuclei galattici attivi (AGN). Per fare luce sullo straordinario caso di ASASSN-15lh, il gruppo di ricerca ha ottenuto tempo osservativo al Telescopio Spaziale Hubble, con cui Dong e colleghi otterranno le più dettagliate informazioni sul post-esplosione. Importanti chiarimenti circa la vera sorgente della sua potente emissione potrebbero venire alla luce.  “ASASSN-15lh potrebbe condurci verso nuove idee e nuove osservazioni dell’intera classe delle Supernovae superluminose – rileva Dong – e noi non vediamo l’ora di averne molte negli anni a venire”. Certamente, in futuro la comprensione di simili, straordinari transienti astrofisici conoscerà un notevole progresso, quando le varie “survey” avranno allargato il campione di eventi conosciuti. Nel 2022, in particolare, dovrebbe entrare in funzione il Large Synoptic Survey Telescope in Cile, il cui contributo in questo ambito potrebbe rivelarsi rivoluzionario. Oggi è la più brillante Supernova mai scoperta da un gruppo di astronomi come quello guidato da Subo Dong del Kavli Institute for Astrophysics di Pechino in Cina, a cui ha partecipato Filomena Bufano dell’Osservatorio Astrofisico Inaf di Catania. Alcune classi di stelle giunte al termine del loro ciclo evolutivo esplodono in catastrofiche emissioni di energia gravitazionale, dando luogo a uno degli eventi fra i più brillanti nell’Universo, noto come Supernova. Il 99 percento dell’energia della stella viene emessa sotto forma di Neutrini. Ma anche tra le Supernovae sembrano essercene alcune ancora più “super”, tanto da indurre gli astronomi ad assegnare loro l’ulteriore aggettivo superluminose e/o “iper”. A ragione, visto che possono essere da 100 a 1000 volte più brillanti delle più comuni Supernovae. ASASSN-15lh è un nuovo evento di Supernova superluminosa, scoperta dal gruppo della All Sky Automated Survey for SuperNovae (ASAS-SN) grazie a una rete di telescopi robotici di 14 cm di diametro sparsi in tutto il mondo che scandagliano il cielo nella banda della luce visibile ogni due o tre notti, alla ricerca Supernovae brillanti. Dopo il primo “allerta” di un nuovo possibile evento segnalato dal sistema di ASASSN, il 14 Giugno 2015, nei giorni seguenti altri telescopi più potenti sono stati puntati sulla sorgente per raccogliere e analizzare la sua luce. “È stato grazie però agli spettri catturati con il telescopio Du Pont in Cile e soprattutto il Southern African Large Telescope e il Magellan Clay – rivela Filomena Bufano, coautrice del lavoro di scoperta “ASASSN-15lh: A Highly Super-Luminous Supernova” di Subo Dong, B.J. Shappee, J.L. Prieto, S.W. Jha, K.Z. Stanek, T.W.-S. Holoien, C.S. Kochanek, T.A. Thompson, N. Morrell, I.B. Thompson, U. Basu, J.F. Beacom, D. Bersier, J. Brimacombe, J.S. Brown, F. Bufano, Ping Chen, E. Conseil, A.B. Danilet, E. Falco, D. Grupe, S. Kiyota, G. Masi,B. Nicholls, F. Olivares E., G. Pignata, G. Pojmanski, G.V. Simonian, D.M. Szczygiel e P.R. Woźniak, pubblicato su Science – che siamo riusciti a calcolare la distanza dell’esplosione e quindi a risalire alla immane luminosità rilasciata nell’evento, paragonabile ad alcune decine di volte quella di tutte le stelle che compongono la nostra Galassia!”. Lo spettro di ASASSN-15lh assomiglia a quelli delle supernovae superluminose povere di Idrogeno. Fra i modelli proposti per spiegare le luminosità estreme di queste, il più accreditato è quello che vede la formazione di una Magnetar, ovvero una stella a neutroni caratterizzata da un campo magnetico estremamente potente e altissima velocità di rotazione, che potrebbe fornire una notevole quantità di energia addizionale rispetto alle Supernovae classiche. “L’importanza di questa classe di Supernovae estreme sta nella possibilità di osservarle anche a grandissime distanze, grazie alla loro estrema luminosità – rileva la Bufano – la comprensione dell’origine fisica di questo tipo di oggetti è fondamentale dunque non solo perché potremo utilizzarli come indicatori di distanza ma anche perché attraverso essi saremo così testimoni dell’evoluzione delle stelle formatesi nelle prime fasi dell’Universo, grazie anche alle grandi potenzialità dei futuri telescopi come lo European Extremely Large Telescope (E-ELT) e il James Webb Space Telescope”. La più famosa Supernova dei tempi moderni, la più vicina e la più luminosa, finora, resta la SN1987A, o meglio il suo “resto” che deve ancora svelare tutti i suoi segreti agli astronomi. Tempo fa i ricercatori dell’ International Centre for Radio Astronomy Research (ICRAR) australiano avevano osservato con un dettaglio mai raggiunto prima l’emissione radio della Supernova, nelle lunghezze d’onda millimetriche. La SN1987A è stata osservata per la prima volta nel 1987, nella Grande Nube di Magellano, alla distanza di 55mila parsec dalla Terra, circa 182mila anni luce. I ricercatori credettero di aver trovato una nuova stella e, invece, avevano scoperto la più “vicina” Supernova: una stella gigante nel suo stadio finale, la più brillante mai osservata dai tempi di Galileo Galilei, quando furono inventati i telescopi, 4 secoli fa. Nello studio pubblicato su The Astrophysical Journal, il team di astronomi australiani e cinesi avevano analizzato i dati ottenuti utilizzando il radiotelescopio dell’Australia Telescope Compact Array (ATCA) – CSIRO, nel Nuovo Galles del Sud. “Riprendere oggetti astronomici così distanti a lunghezze d’onda inferiori a un centimetro richiede delle condizioni atmosferiche stabili. Per questo tipo di telescopi queste sono possibili solo durante i momenti più freddi dell’inverno, ma anche in quei casi l’umidità può creare molti problemi”, affermò l’autrice principale Giovanna Zanardo dell’ICRAR. Diversamente dai telescopi ottici, i radiotelescopi funzionano anche di giorno e posso scrutare anche attraverso gli ammassi di gas e polvere e guardare “dentro” oggetti astronomici come i resti delle Supernove, radiogalassie e buchi neri. I ricercatori studiano l’evoluzione delle Supernovae fino ad arrivare allo stadio di resti di Supernovae, per capire meglio come avvengono queste esplosioni. Ossia per individuare nei cataloghi la stella madre estinta. Con il loro studio gli astronomi avevano analizzato la morfologia di SN1987A attraverso le immagini ad altissima risoluzione e le avevano anche comparate ai dati ottici e ai raggi X collezionati negli anni, per tracciarne la storia. La sovrapposizione RGB  dei dati di tre telescopi, risulta palese: in rosso vediamo le osservazioni radio fatte dall’Australian Compact Array, il verde corrisponde al telescopio ottico Hubble e il blu ai dati ai raggi X del satellite Chandra della Nasa. Gli scienziati “credono” che al centro di ciò che resta di SN1987A vi possa essere una nebulosa con una stella pulsar al suo interno, e che quindi  l’esplosione della Supernova non abbia provocato la formazione di un buco nero, ma di una stella di neutroni. E tutto questo in appena 400 anni di Scienza.

© Nicola Facciolini

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