Il principio di autodeterminazione, contro la guerra e per la pace

spirata dalla bella e partecipata manifestazione nazionale del 24 ottobre a Napoli contro le manovre militari della NATO denominate “Trident Juncture”; confermata nella successiva assemblea, ancora a Napoli, del 25 ottobre, che aveva finalmente posto le basi per la riconnessione unitaria di un’ampia articolazione sociale contro la guerra e per la pace; l’ultima assemblea nazionale […]

spirata dalla bella e partecipata manifestazione nazionale del 24 ottobre a Napoli contro le manovre militari della NATO denominate “Trident Juncture”; confermata nella successiva assemblea, ancora a Napoli, del 25 ottobre, che aveva finalmente posto le basi per la riconnessione unitaria di un’ampia articolazione sociale contro la guerra e per la pace; l’ultima assemblea nazionale dello scorso 25 gennaio a Catania ha rilanciato l’esigenza, condivisa da tutti i comitati e le realtà che vi hanno partecipato, di «un lavoro comune e coordinato», possibile solo mettendo insieme le diverse realtà in una «rete nazionale che possa rappresentare, per i tanti individui, collettivi e situazioni, attenti alle tematiche della guerra, un punto di riferimento che incoraggi ad una maggiore partecipazione». È da fin troppo tempo che nel movimento, complessivamente inteso, per la pace e contro la guerra, si avvertono le conseguenze delle divisioni e frammentazioni che si sono prodotte e si percepisce, viceversa, l’importanza di una accumulazione di massa critica che sia in grado, finalmente, dopo anni, di fare compiere al movimento un salto di qualità per incisività ed efficacia.

È il difficile crinale del nesso tra “unitarietà ed efficacia”, che la così costituita “Rete contro la Guerra e il Militarismo” intende, almeno, provare a guardare negli occhi e a sfidare in tutta la sua portata: «inclusività non vuol dire rinunciare a parole d’ordine chiare su cui, dalla manifestazione e l’assemblea di Napoli, il percorso unitario si è avviato. L’opposizione alla guerra e al militarismo, l’antimperialismo e l’antirazzismo, costituiscono un’unica lotta e non possono scindersi. Per questo, posizioni ambigue o soggetti che guardano a formazioni razziste o fasciste come possibili “alleati”, in nome della opposizione alla NATO, non possono essere compagni di strada». «Parimenti, non possiamo illuderci di rafforzare l’opposizione alla guerra trovando scorciatoie, aiuti o una sorta di convergenza con Stati considerati come un “pericolo minore” o valutati in relazione alla loro capacità di contrasto ad un “nemico principale”. Pur distinguendo tra aggressori ed aggrediti, il movimento contro la guerra non ha Paesi e Governi amici. È stata così ribadita la necessità – che ne è peraltro tratto costitutivo – dell’autonomia ed autorganizzazione del movimento contro la guerra».

Le realtà che si riconoscono nel percorso unitario – appunto – “contro la guerra e il militarismo” intendono quindi sfuggire all’abbraccio mortale tra “geopoliticismo” e “collateralismo”, rifiutando tanto il corto-circuito per il quale «il nemico del mio nemico è mio amico», quanto l’illusione, semplificatoria e campista, del «fronte dei popoli e degli Stati uniti contro la guerra e contro l’imperialismo». Non si tratta di non riconoscere l’ispirazione antimperialista e multipolare di Paesi che, per storia politica e retro-azioni culturali, soprattutto nell’Est e nel Sud del mondo, si muovono in maniera antagonistica rispetto al dominio unipolare e all’egemonia imperiale. Si tratta piuttosto di distinguere la specificità del proprio raggio di azione e dei propri obiettivi di lotta: che non sono quelli di questo o di quel governo, bensì di quelle forze popolari che maggiormente subiscono le conseguenze delle guerre e delle aggressioni ed il precipitato dell’egemonismo e del militarismo.

In altri termini: schierarsi dalla parte di chi maggiormente subisce le conseguenze delle violenze e delle aggressioni significa, al tempo stesso, schierarsi dalla parte delle masse popolari e, in particolare, degli oppressi e degli sfruttati, situarsi in continuità con l’esigenza universale di contrastare la guerra (i piani di guerra, le politiche di guerra, l’economia di guerra) e costruire la pace, e rifiutare il collateralismo e la logica del “governo amico” e dello “stato guida” che, se poteva avere una logica e un valore “nel Novecento”, oggi è, con tutta evidenza, al di fuori della storia.

Impostato così il profilo del percorso, maturano – possono maturare – condizioni promettenti per suscitare interrogativi esigenti e mettere a cimento l’intelligenza delle realtà che si battono contro la guerra e per la pace sul banco di prova di questioni non più eludibili: terreni da individuare come prioritari e questioni su cui aggiornare la proiezione del movimento stesso, ovvero, come più spesso si dice, su cui porre questa sfida “all’altezza dei tempi e della crisi”. Lo scenario sullo sfondo del quale ci muoviamo è infatti quello della moltiplicazione e della frammentazione, sempre più violenta e radicale, dei fronti della guerra, e della esplosione e della radicalizzazione, sempre più intensa, di istanze di giustizia e di rivolta. Oltre che, ça va sans dire, di una rinnovata e brutale spirale di guerra e terrorismo che domina sempre più l’immaginario collettivo e le scelte strategiche.

Le parole chiave per un rinnovato impegno contro la guerra, a partire da quelle in corso (ad “alta” e “bassa” intensità, dalla Siria al Donbass, per intenderci) sino a quelle in programma (a partire dalla Libia, dopo il tragicoshowdown consumato nel 2011) dovrebbero essere, di conseguenza, due: auto-determinazione, il rispetto delle decisioni dei popoli nel liberamente determinare il corso del proprio sviluppo e le modalità della affermazione della propria dignità; e reciprocità, il porsi, cioè, su un piano di equivalenza, dismettendo ogni supponenza ed ogni rancore etno-centrico ed euro-centrico. Se il mondo, visto dall’Europa, appare caotico e minaccioso, non dimentichiamo che l’Europa, vista dal mondo, appare piccola e chiusa; e quando nell’Est Europa si erigono muri e si stende filo spinato per impedire il passaggio degli uomini e delle donne attraverso le frontiere, o nel Nord Europa si pignorano i beni dei profughi, in fuga da guerre, persecuzioni e privazioni, per scoraggiarli dal fare domanda di asilo politico, appare chiaro che tutto questo non scoraggia, anzi rafforza, la spirale guerra – terrorismo e che la UE è parte del problema, più che della soluzione.

Su un terreno più specifico, dire no alla guerra dovrebbe significare, sempre e comunque, dire no a chi la guerra la fa e agli strumenti che adopera: non solo la guerra oggi non è più una guerra “simmetrica”, ma ha assunto anche una lunga serie di declinazioni, al punto che si è giunti a parlare perfino di guerra di “quarta” generazione (quella delle fazioni armate mutevoli e dei confini statali dissolti) e di “quinta” generazione (quella che è stata definita come una «combinazione moderna di barbarie e guerriglia», miscela di efferatezza nell’esercizio della violenza e raffinatezza nell’uso della comunicazione, della propaganda e dei media). Non c’è dubbio che siano oggi i grandi attori politici e finanziari, per i loro interessi e per i loro scopi, a ispirare e muovere la guerra. Il testo di riferimento – per fermarsi all’ambito giuridico – resta la Dichiarazione per la liberazione dei popoli coloniali (Dichiarazione dell’Assemblea Generale del 1960) che, senza giri di parole, ricorda che:

  1. la soggezione dei popoli al soggiogamento, alla dominazione e allo sfruttamento stranieri costituisce un diniego dei diritti umani fondamentali, è contraria allo Statuto delle Nazioni Unite e compromette la causa della pace e della cooperazione internazionale;
  2. tutti i popoli hanno pieno diritto di libera decisione; in base a tale diritto, decidono liberamente del proprio statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale;
  1. deve essere posto fine ad ogni azione armata e ad ogni misura di repressione, di qualsiasi specie, diretta contro i popoli dipendenti, per consentire a questi popoli di esercitare pacificamente e liberamente il loro diritto alla completa indipendenza.

In maniera ancora più esplicita, si può dire, con la Carta di Algeri del 1976, che (art. 28) «ogni popolo i cui diritti fondamentali sono gravemente misconosciuti ha il diritto di farli valere soprattutto attraverso la lotta politica o sindacale e anche, in ultima istanza, attraverso il ricorso alla forza» e, di più, che (art. 29) «i movimenti di liberazione devono poter accedere alle organizzazioni internazionali ed i loro combattenti hanno diritto alla protezione del diritto umanitario di guerra».
È bene rimarcare che tutto questo è “incorporato” nel diritto internazionale generale, di cui, forse anche per questo, sistematicamente si fa carta straccia. Quindi, in una battuta, non si capirebbe perché essere “timidi” nel sostegno alle battaglie di liberazione dei popoli oppressi quando nemmeno il “formalissimo” diritto internazionale lo è. Al di fuori della battuta, porsi dalla parte dell’autodeterminazione dei popoli – perché di questo si tratta – significa contrastare tutte le guerre di aggressione e sostenere la liberazione dei popoli oppressi dalle occupazioni militari e coloniali. Purtroppo, gli esempi continuano a essere numerosi, dal Kurdistan al Sahara Occidentale, passando per l’esempio storico e decisivo della lotta di autodeterminazione del popolo palestinese o delle lotte che uniscono autodeterminazione nazionale e democrazia sostanziale, e i compiti per chi intenda continuare a battersi per la pace, contro la guerra e le ingiustizie, lontani, purtroppo, dall’essere finiti.

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