Chi si fa i selfie non e’ ne’ patologico ne’ narcisista

“Guardare bene i selfie e non scorrerli velocemente su Istagram. Fermarsi ad osservare le immagini di tutti coloro che usano il selfie in modo espressivo nel porsi in Rete, perche’ il selfie non e’ solo un autoritratto. È un autoritratto che ha come fine quello di essere pubblicato in Rete, condiviso e di produrre un […]

“Guardare bene i selfie e non scorrerli velocemente su Istagram. Fermarsi ad osservare le immagini di tutti coloro che usano il selfie in modo espressivo nel porsi in Rete, perche’ il selfie non e’ solo un autoritratto. È un autoritratto che ha come fine quello di essere pubblicato in Rete, condiviso e di produrre un effetto”. Il consiglio viene da Peter Sarram, professore di Communication and Media Studies alla John Cabot University, al convegno che si e’ svolto a Roma sul tema ‘Fear and Loathing of the Onlien Self. A Savage Journey into the Heart of Digital Cultures’. Una due giorni co-organizzata dal professore insieme a Teresa Numerico, docente di Filosofia della Tecnologia all’Universita’ di Roma TRE, Geert Lovink dell’Istitute of network cultures di Amsterdam, e Donatella Della Ratta, professoressa della John Cabot University. Piu’ che ‘Paura e delirio del se’ digitale’, “la traduzione vera di ‘loathing’- spiega Sarram in un’intervista alla Dire- e’ disgusto: una sensazione attiva e non fatta su di te”. Il professore non condivide l’idea che la cultura del narcisismo si manifesti attraverso i selfie: “I selfie sono molto piu’ che questo, si ramificano in tutta una serie di aspetti che riguardano la politica, la cultura e la societa’. Non sono, quindi, una patologia ma un qualcosa di piu’ complicato che oggi con troppa semplicita’ viene patologizzato”. Il convegno serve a porre domande piu’ che a dare risposte su quando un selfie diventi patologico e quando un vero e proprio strumento di comunicazione. “L’idea della patologia e’ sempre problematica perche’ chiude- prosegue lo studioso- ed e’ un aspetto complesso e complicato sul quale ragioneremo per debanalizzare un’immagine che sta girando in maniera virale: chi si fa sempre dei selfie o chi da’ molta importanza all’identita’ online e’ per forza un narcisista. Assolutamente no- sottolinea Sarram- cosi’ si patologizza e depoliticizza. Il modo in cui il selfie puo’ essere usato come strumento di attivismo politico, artistico, online o come terreno di scontro non viene mai calcolato se lo continuiamo a considerare solo una questione patologica- conclude- una inclinazione da 12enni che hanno velleita’ narcisistiche”. Una due giorni di convegno per fare il punto sull’identita’ digitale e il modo in cui la soggettivita’ tende a rappresentarsi nel teatro del web e a trasformarsi costantemente. “Selfie e autorappresentazione possono diventare una forma d’arte ed essere distruttive rispetto all’idea del narcisismo e della costante e completa autorappresentazione del bisogno di riconoscimento da parte degli altri”, rivela Numerico. Il selfie non e’ solo un autoritratto: “L’autoritratto e’ sempre qualcosa di mediato, il selfie e’ invece un’immagine immediatamente postata quasi prima di essere guardata dallo stesso autore. È come se l’immagine del soggetto fosse riprodotta ed esistesse solo attraverso lo sguardo del pubblico- afferma la professoressa- per poi essere monetizzata in termine di like, link, retweet e cosi’ via”. Roma e Amsterdam aprono sul tema un nuovo filone di dibattito: “Nella cultura di internet, dominata dalle idee di manipolazione e cospirazione, qual e’ il nuovo ruolo dell’Io digitale? Giocatore o nuova vittima?”, chiede Lovink. “Senza speculare su un cataclisma del se’- continua l’esponente dell’Istitute of network cultures- l’Io digitale e’ dominato dalla questione delle fake news, ormai un fenomeno globale”. La manipolazione della Rete non e’ una questione nuova, “e’ qualcosa che sta dentro alla possibilita’ della Rete e viene da lontano. Gia’ negli anni ’40- chiarisce Numerico- quando si parlava di cibernetica si diceva ‘Controllo e comunicazione sono due facce della stessa medaglia. Nello stesso momento in cui entriamo all’interno di una situazione relazionale e comunicativa, possiamo essere sottoposti alla sorveglianza e quindi essere anche oggetto di manipolazione e trasformazione”. Il tema della sorveglianza, chiosa la professoressa di Filosofia delle Tecnologie di roma TRE, “e’ legato all’idea che esiste un osservatore che costantemente ci controlla, per il quale auto modifichiamo il nostro comportamento per essere ‘compliant’ con l’idea che l’osservatore si fa di noi. Allo stesso tempo la manipolazione ha anche a che fare con il bisogno di essere riconosciuti dal collettivo e quindi con la scelta di agire nel senso di tale riconoscimento. Credo che il problema del riconoscimento e del bisogno di conferma da parte dell’esterno abbia sicuramente a che fare con la societa’ neoliberale, il narcisismo e altro- fa sapere Numerico- ma anche con un aspetto piu’ originario ed antropologico dell’essere umano che, avendo questo imprinting molto basso, costituisce la sua identita’ a partire dall’altro. Se lo sguardo della madre non e’ sufficiente a costituirsi- continua la docente- si produrra’ la necessita’ di una costante richiesta di essere guardati e riconosciuti dall’esterno”. L’identita’ online “e’ un modo per autorappresentarsi e controllare la soggettivita’, la costruiamo nel momento in cui ci specchiamo e questo specchio rappresenta lo schermo. Tutti gli schermi in realta’ sono degli specchi, compreso il mirino”. Puo’ essere considerato patologico il fotografare ossessivamente se stessi e cio’ che si fa per poi postarlo continuamente online? “Forse ha a che fare con la grande solitudine nella quale viviamo- commenta la docente di Roma Tre- con questa costante sottrazione del corpo nella Rete, che viene in qualche modo compensata da una iperpresenza, iperoggettificazione della propria immagine e della vita che conduciamo. È come se tale autorappresentazione fosse un modo per essere in contatto con persone che non ci sono. Una delle questioni rilevanti della contemporaneita’ e’, infatti, l’incapacita’ di sostenere la solitudine dentro una grande situazione di solitudine, perche’ le relazioni sono disgregate e non sono necessariamente legate al luogo in cui viviamo. Questa dimensione patologica non riguarda tutti, ma solo una minoranza fragile di persone”. Il vero problema, secondo Numerico, e’ “la mancanza di educazione all’uso dei mezzi di comunicazione digitali. Mettere in mano uno smartphone a un ragazzino non basta per renderlo esperto di tecnologia. Dobbiamo fare un’azione di empowerment rispetto alla questione della tecnologia- conclude- tenendo insieme le dimensioni critica, politica ed estetica”

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