Tributo agli eroi del Kursk: dieci anni fa la tragica fine del sottomarino russo

Dalla storia al mito, dalla leggenda alla gloria. Sulle note del compositore statunitense Basil Poledouris, appositamente create per la celebre colonna sonora del film Caccia a Ottobre Rosso, esprimiamo il nostro tributo ai familiari delle vittime del Kursk, il sottomarino nucleare inabissatosi dieci anni fa nel mare di Barents con i suoi segreti. Ma chi […]

Dalla storia al mito, dalla leggenda alla gloria. Sulle note del compositore statunitense Basil Poledouris, appositamente create per la celebre colonna sonora del film Caccia a Ottobre Rosso, esprimiamo il nostro tributo ai familiari delle vittime del Kursk, il sottomarino nucleare inabissatosi dieci anni fa nel mare di Barents con i suoi segreti. Ma chi o che cosa affondò il Kursk, il gioiello della marina militare russa? Mentre si fanno sempre più insistenti le voci su un imminente ingresso della Marina russa nell’Alleanza Atlantica (Nato), onoriamo gli eroi del sottomarino Kursk (classe Oscar II) che dieci anni fa persero le loro giovani vite nella tragica fine del battello “K-141”: 118 marinai sprofondarono in mare, quel maledetto 12 Agosto del 2000, nella pancia della loro balena d’acciaio. E’ l’ora della memoria. Siamo vicini al Popolo russo in queste tragiche ore come dieci anni fa. Il Kursk dieci anni fa era già da sei anni il più sofisticato sottomarino nucleare (modello Antei) al mondo, equipaggiato con i nuovissimi missili Granit e soprattutto con i velocissimi siluri Kshval, torpedini in grado di volare sottacqua come un aereo a reazione, alla velocità di oltre 330 miglia orarie. In teoria era praticamente impossibile una simile tragedia su una meraviglia tecnologica come il Kursk. In particolare era assurdo che potesse imbarcare, in quelle ore fatali, siluri vecchi 30 anni per poi sfortunatamente autoaffondarsi. Nessuno ci ha mai creduto. Il K-141 Kursk apparteneva ad una classe di dodici unità costruite nei cantieri di Severodvinsk ed entrate in servizio tra il 1986 e il 2000. Si tratta di sottomarini d’attacco concepiti per operare singolarmente contro gruppi navali costituiti da una portaerei con relativa scorta.
Tra i più grandi sommergibili costruiti, gli Oscar II erano, al momento della perdita del Kursk, la punta di diamante della flotta sottomarina russa sia per le eccellenti caratteristiche degli scafi sia per l’affidabilità dei propulsori. Il celebre videogioco Dangerous Waters ne celebra le potenzialità. L’armamento particolarmente potente li rendeva e, in buona misura, li rende ancora oggi adeguati ad assolvere il compito loro affidato. Siluri-missili a reazione di concezione completamente nuova, erano stati distribuiti ad alcune unità della classe. Con una struttura a doppio scafo resistente, suddiviso in 9 compartimenti stagni, un dislocamento in superficie di 13.900 tonnellate (in immersione 18.300 ton.), una lunghezza di 154 metri, una larghezza di 18,20 mt., il Kursk poteva vantare, come motori, due reattori nucleari OK-650 B, quattro turbine a vapore, due eliche, per una potenza di 98.000 hp, una velocità in superficie di 19 nodi (in immersione 30 nodi) e una quota massima di immersione di 500 metri. L’armamento era considerevole: 24 missili nucleari anti-nave a cambiamento di ambiente SS-N-19 Granit, 4 tubi lanciasiluri da 533 mm per missili/siluri VA111 Shkval e missili nucleari SS-N-152, tubi lancia siluri da 650 mm per siluri a lunga durata DST90 e missili nucleari SS-N-16. Senza contare le riserve: 18 siluri o missili. Una ghiotta opportunità servita su un piatto d’acciaio, per coloro che volevano carpirne i segreti. Non è facile fare luce sulla verità di uno dei fatti più controversi nella storia della marina militare moderna: la tragica fine del sottomarino nucleare russo K-141 Kursk e dei suoi 118 marinai che il 12 Agosto del 2000 persero la vita in circostanze ancora oggi ignote. Nonostante tutte le inchieste finora svolte, molto resta ancora da scoprire. Possiamo contare su uno straordinario reportage della Rai, girato alcuni mesi prima la tragedia, ambientato proprio nella base navale strategica russa di Murmansk dove sono ormeggiati i sottomarini simili al Kursk. Oggi, la Russia è una potente alleata delle Democrazie occidentali, della Nato e dell’Europa. Si avvia a solidificare le proprie istituzioni liberamente elette ma i rigurgiti del passato sovietico ogni tanto riaffiorano minacciose in superficie, in particolare tra le vecchie gerarchie militari. Non è un caso se in questi ultimi anni i cambi al vertice sono stati piuttosto frequenti. Senza contare i misteri e i segreti del controverso servizio segreto sovietico KGB, i cui archivi oggi, sotto altro nome, restano più oscuri che mai. Se a tutto ciò aggiungiamo che sottomarini simili al Kursk e di più evoluti in costruzione non solo nel Mare del Nord ma in tutto il mondo (compresa l’Italia), solcano i sette Mari a caccia o a difesa di non si sa bene che cosa, allora possiamo star certi che l’incubo di un improvviso olocausto nucleare a colpi di bombe all’idrogeno, non è certamente archiviato. Anzi. Il Kursk varato nel 1994, era un mezzo moderno e potente, capace di portare molte testate nucleari proprio per scatenare l’apocalisse sulla Terra. Poteva imbarcare 4,5 tonnellate d’acqua e continuare a navigare. Il Norsar (il servizio di registrazione sismica della Norvegia) registrò il giorno del disastro (il 12 agosto) due esplosioni: una alle 11:29 minuti e 34 secondi (ora di Mosca) con potenza pari al grado 1,5 gradi della scala Richter; la seconda alle 11:31 minuti e 48 secondi, pari al grado 3,5.

Gli stessi dati furono registrati dai sommergibili americani Toledo e Memphis e dall’inglese Splendid, che spiavano in mare le esercitazioni dei russi, e dalle stazioni di ascolto Nato in Canada e in Alaska. Bastano questi dati certi (i comandi russi parlano di una terza esplosione alle 11:44, non confermata dalle fonti occidentali) per farci capire che sul Kursk stesse accadendo qualcosa di eccezionale e terribile. Il grado 1,5 della scala Richter equivale all’esplosione di 100 chili di tritolo. Il grado 3,5 alla detonazione di 233 chili di tritolo.

Se il Kursk si inabissò in circostanze poco chiare, si deve forse al fatto che era carico delle sue micidiali armi nucleari in grado, se fossero state lanciate, di devastare l’intera Europa in pochi minuti? Ma torniamo indietro nel tempo, in fondo al mare di Barents, a quegli attimi fatali, subito dopo la triplice o duplice esplosione della prua del Kursk. “Ci sono 23 persone qui. Abbiamo deciso di spostarci perché nessuno può lasciare il sottomarino. E’ buio per scrivere, ma cercherò di scrivere a tentoni. Sembra che non ci siano speranze, il 10-20 per cento. Speriamo che almeno qualcuno leggerà. Qui sono gli elenchi dei membri dell’equipaggio delle varie sezioni che si trovano ora nella nona e che cercheranno di uscire”. La conclusione del messaggio è un ultimo addio ai parenti e amici: “Saluti a tutti, non dovete disperarvi”. Non è la drammatica sequenza di un film di spionaggio, è un fatto di cronaca terribile, realmente accaduto, con tutto l’agghiacciante sapore di irrealtà che potrebbe avere un romanzo. Il 12 Agosto del 2000 il sottomarino nucleare russo Kursk probabilmente era impegnato in esercitazioni la cui reale natura non è mai stata chiarita.

Un’anomalia magnetica del fondo marino scoperta alle ore 4.36 del giorno successivo, verrà identificata come il Kursk. Il sottomarino era affondato alle coordinate 69°40’N e 37°35’E ad una profondità compresa tra i 124 e 108 metri. Il Kursk ricevette un grosso danno alla parte prodiera: questo evento generò un’esplosione interna tale da frammentare l’intera area anteriore superiore dello scafo determinando lo sfondamento di alcune paratie e l’affondamento del sommergibile.

La quasi totalità dell’equipaggio perì al momento della detonazione ma l’onda d’urto non raggiunse i compartimenti 6, 7 e 8. La parte dell’equipaggio che vi si trovava, iniziò ad evacuare i compartimenti alle 12.58 radunandosi a poppa estrema, nel compartimento numero 9. In totale 23 uomini. Le annotazioni di uno di loro proseguiranno dalle 13.34 alle 15.15. Poi più nulla.

Il sottomarino sprofonda nelle gelide acque. Impossibilitato a manovrare, lancia un SOS e attende i soccorsi. Che non arrivano. La notizia viene tenuta segreta al resto del mondo per due giorni interi (ricordate Chernobyl?). Il 14 Agosto la Russia denuncia il fatto. Il capo della marina militare russa dichiara che l’avaria è stata provocata da una manovra errata, ma si sospetterà sempre che si tratti invece di una collisione con un sottomarino di un’altra potenza straniera. Tuttavia nessuno ammetterà di aver incrociato a quella latitudine con imbarcazioni da guerra. Le navi mercantili presenti in quel momento nel Mare del Nord riporteranno racconti agghiaccianti di impulsi percepiti dal sonar: l’equipaggio prigioniero del sottomarino era ancora vivo e stava tentando di comunicare con l’esterno battendo sulle paratie metalliche una sorta di rudimentale segnale morse come nel film Caccia a Ottobre Rosso? I comandi strategici russi erano in allarme rosso.“Sono bloccati a 107 metri di profondità, per quanto ancora potranno resistere?” – erano le domande ricorrenti tra i marinai di passaggio. Gli Stati Uniti d’America offrono subito aiuto ma la Russia rifiuta. Vengono mandati in ricognizione tre piccoli batiscafi, ma ogni cenno di vita alla fine cessò. Finalmente il governo russo accetta le offerte calorose di aiuto che provengono dalla Gran Bretagna e dalla Norvegia. Durante i tentativi di aggancio allo scafo il sottomarino si inclina ulteriormente. Solo il 19 Agosto un’adeguata missione di soccorso britannica giunge sul posto con l’attrezzatura adatta per agganciare il portello del sottomarino e finalmente si riesce a entrare all’interno. Putin è ancora in vacanza sul Mar Nero e rientra precipitosamente. Ma è tardi. Quando la Tv via cavo trasmette le prime immagini della spedizione di soccorso, si constata dolorosamente che a bordo non vi è più alcun sopravvissuto. Resterà solo a memoria del sacrificio dei 118 marinai dell’equipaggio, quel biglietto pieno di compunta dignità ritrovato nelle tasche del Tenente Capo Dimitri Kolesnikov.

Il tragico incidente del sottomarino riapre nell’agosto di ogni anno una ferita aperta nella memoria della marina militare russa ed europea. Il Kursk affondò il 12 agosto 2000, durante le manovre nel mare di Barents. Il primo luglio del 2002 la commissione ufficiale d’inchiesta ha stabilito che l’affondamento del sottomarino fu causato dall’esplosione del carburante difettoso in uno dei suoi siluri, che provocò un brusco innalzamento della temperatura e della pressione nel primo compartimento, facendo scoppiare gli altri siluri. La ricostruzione non ufficiale ipotizza la collisione simultanea, forse frontale, del Kursk e di un altro sottomarino nucleare, forse il Trafalgar della marina britannica. Un incidente provocato “da un’interferenza nelle manovre di allontanamento, necessarie per recuperare la perdita di contatto acustico”. E “non per un attacco deliberato”. Cosa avvenne esattamente a bordo del sottomarino russo inabissato con i suoi segreti? La tragedia era iniziata, dunque, due giorni prima. Giovedì 10 agosto 2000. Alle 10 del mattino il sottomarino Kursk appartenente alla settima divisione della prima flottiglia di sottomarini della flotta del nord, lascia la base di Vidiayevo per partecipare ad una grossa esercitazione nel Mare di Barents. Ai 111 uomini di equipaggio si sono aggiunti due ingegneri e cinque ufficiali di stato maggiore. Ricevuta l’autorizzazione ad immergersi e ad iniziare i lanci di siluri e missili previsti dal programma, il Kursk entra in un silenzio radio che il protocollo dell’operazione prevedeva venisse mantenuto fino alle ore 18 del 12 agosto. Nel tardo pomeriggio il sottomarino effettua due lanci di siluri da esercitazione. Venerdì 11 agosto il Kursk, come da programma di esercitazione, effettua il lancio di un missile a cambiamento di ambiente SS-N-16A ed un secondo lancio è previsto per il giorno successivo alle ore 18 in chiusura di operazioni. La navigazione prosegue in immersione. Sabato 12 agosto alle ore 11.29 il centro sismologico norvegese Norsar registra un’esplosione di magnitudo 1,5 della scala Richter. Due minuti dopo, alle 11.31 ne viene registrata una seconda di intensità molto superiore, corrispondente a magnitudo 3,5 registrata anche dai sottomarini americani USS Toledo e USS Memphis e dal britannico HMS Splendid. Alle 11.44 una terza esplosione viene registrata anche dall’incrociatore russo Petr Velikiy. Alle ore 18, momento del lancio del secondo missile e della prevista ripresa di contatto radio del Kursk con le altre unità della flotta, non essendoci notizie del sottomarino il comando della flotta ordina di iniziare le ricerche. Il K141 Kursk è perduto. La tragedia fu dunque causata dall’esplosione di un siluro, che provocò a catena lo scoppio di tutti gli altri del sommergibile, scaraventando il mezzo a 110 metri di profondità.

Il 14 agosto, il comandante della flotta russa definì “scarse” le possibilità di salvare l’equipaggio. Lo stesso giorno e quello successivo la Norvegia e la Gran Bretagna offrirono il loro aiuto per il salvataggio. Il governo del presidente Vladimir Putin, da poco al potere, si dimostrò reticente ad accettare l’aiuto straniero per salvare l’onore della sua flotta nucleare che stava faticosamente rinascendo. Il maltempo ritardò l’operazione di salvataggio russo che iniziò solo il 15 agosto. Due piccoli sottomarini scesero in profondità cercando di agganciare il Kursk e aprire le porte. Ci provarono per ben sette volte, ma fallirono a causa delle forti correnti sottomarine. Mentre la nazione viveva il dramma del Kursk, il presidente Putin solo quattro giorni dopo intervenne per dire che la situazione era “critica” ma tranquillizzando il Paese in quanto la Russia aveva “tutti i mezzi” per il salvataggio. Quando i segnali di vita dall’equipaggio cessarono, il 16 agosto la Russia si decise ad accettare l’aiuto di Londra e Oslo. L’operazione di salvataggio internazionale cominciò solo il 20 agosto, il giorno dopo i norvegesi riuscirono ad aprire il sottomarino, ma era troppo tardi per raggiungere vivi i marinai, molti dei quali avevano cercato rifugio in un compartimento in fondo al mezzo. Il recupero del Kursk e dei corpi prese molti mesi.

In un articolo di Giovanni Bernardi, il 17 luglio 2001, viene analizzata la percezione di pericolo e disfatta in una Marina russa allo sbando dopo la tragedia del Kursk. “La tragedia del sottomarino Kursk scosse l’opinione pubblica occidentale, sia per la perdita di 118 vite umane nel mare di Barents sia per l’indifferenza dimostrata da parte della leadership russa, in particolare di Wladimir Putin. La risposta data a Larry King dal Presidente russo sembrò uno schiaffo in faccia alla sofferenza delle famiglie delle vittime: “E’ affondato” disse al giornalista che gli chiedeva un commento sull’avvenimento. Perfino le bugie dette in quella occasione dalle autorità direttamente responsabili della sorte del sottomarino non fecero nulla per sembrare delle verità. La popolarità del Presidente russo subì a quell’epoca un grave tracollo”. Secondo Bernardi il Kremlino avrebbe imparato la lezione e predisposto per l’operazione di recupero quasi uno show che potrebbe sembrare ispirato da esperti di comunicazione americani. Il responsabile delle pubbliche relazioni del Presidente, Sergei Yastrzhembsky, riteneva l’avvenimento un’ottima carta da giocare per l’immagine della Marina russa. “Una nave condurrà i giornalisti sul luogo dell’operazione e un centro internazionale stampa è stato costituito a Murmansk. Ma la prima fase dell’avventura si rivelerà oltremodo difficile e nessuno ne fa mistero. Speciali robot taglieranno la prima sezione dal resto del sottomarino, dove erano contenute le torpedini la cui esplosione è stata causa dell’affondamento. Ma nessuno sa dire se sono esplose tutte. Un secondo rischio proviene dalla seconda e terza sezione dove sono contenuti 24 missili che potrebbero avere ricevuto un grave shock dall’esplosione”. A rendere più drammatica la scenografia del recupero vi è un poderoso schieramento della flotta del Mare del Nord: ventitré navi, tra le quali due incrociatori nucleari e due portaerei. Analisti di difesa indipendenti russi rimangono scettici al cospetto di un tale schieramento di forze: non è chiaro, infatti, se gli ammiragli desiderino dimostrare di essere in grado di comandare una flotta imponente o se vogliano – come dicono – fornire cornice di sicurezza. Peraltro, i rischi ci sono indipendentemente dal numero delle navi schierate e la sicurezza relativa ai segreti di funzionamento dei sottomarini nucleari russi, è già stata compromessa dall’addestramento fatto fare ai soccorritori sul gemello del Kursk, il sottomarino Oryol. La verità – secondo alcuni esperti – è che si desideri fare dimenticare il vero motivo dell’intera operazione: la perdita di 118 vite umane. In un primo tempo le dichiarazioni ufficiali parlavano di recupero del sottomarino per potere accertare le cause dell’affondamento. Se la prima sezione viene tagliata e abbandonata in fondo al mare, però, non si riesce a capire come le cause della tragedia possano essere esaminate, visto che sono da studiare proprio nella prima sezione. Chi ha pianificato l’operazione, d’altra parte, afferma che non c’è altro modo di operare, visto che comunque la prima sezione si staccherebbe ugualmente nella fase di recupero e ne comprometterebbe la dinamica, come sostiene l’ammiraglio Mikhail Barskov. Una delle verità che girano attorno all’operazione è quella secondo la quale il sottomarino debba essere recuperato per il pericolo che costituisce all’intensa navigazione nell’area, soprattutto di battelli da pesca. Ma la verità sulla quale non vi sono dubbi è che nessuna responsabilità sarà accertata fino a quando il recupero non sarà totale, come afferma il Presidente Putin. Nei confronti di nessuno sarebbero stati presi provvedimenti disciplinari, amministrativi, penali, nemmeno nei confronti dell’ammiraglio Kuroyedov che per lungo tempo ha affermato che l’affondamento del Kursk era stato causato dalla collisione con un sottomarino inglese o americano: rettaggi di un’antica tecnica di disinformazione comunista.

Mentre nel Mar di Barents continuava il recupero dei corpi dei marinai del  Kursk e i primi solenni funerali delle vittime si svolgevano a San Pietroburgo il 2 Novembre successivo, a oltre 100 metri di profondità, nelle gelide acque dell’Artico flagellate dai venti, giaceva una verità inconfessabile. Che 23 uomini dell’equipaggio del Kursk fossero ancora vivi tre giorni dopo l’affondamento.

Lo sosteneva il quotidiano moscovita Zhyzn, sulla base delle dichiarazioni dell’ufficiale navale Igor Gryaznov, che aveva condotto i primi esami necroscopici sui corpi recuperati e aveva letto un secondo messaggio, scritto di pugno dal comandante della sezione turbine Dimitri Kolesnikov in un biglietto trovato in una tasca della sua uniforme. Il biglietto, con calligrafia incerta ma chiara, portava nell’ultima riga la data del 15 Agosto. La rivelazione sarebbe stata devastante per i capi navali del Cremlino, imputabili di un terribile cover-up della verità. In tal caso essi avrebbero dovuto rispondere delle reali cause dell’affondamento, della durata effettiva dell’agonia dell’equipaggio e delle proprie responsabilità in uno scenario di guerra o di intelligence in cui il Kursk sfortunatamente potrebbe essere stato coinvolto. Chi sostiene convinto che un sommergibile straniero abbia urtato il K-141, è il comandante della Marina ammiraglio Vladimir Kuroyedov, secondo il quale anche la commissione d’inchiesta sarebbe stata propensa per la tesi della collisione con un’unità statunitense o britannica. Ma gli esperti occidentali smentirono questa versione, avvalorata dalle lamiere di prua del Kursk, piegate verso l’interno, segno di un urto dall’esterno.

In un precedente articolo di Giovanni Bernardi del 19 agosto 2000, si analizza l’ascesa e il declino della flotta più potente del mondo. “E’ sempre una pena quando si vede morire un gigante, e questa volta il Gulliver del mare trattiene con sé 118 lillipuziani. Eppure, con i suoi 155 metri di lunghezza (non entrerebbe nello stadio di San Siro) non è nemmeno il più grande che sia mai stato costruito: la classe Typhoon misura 170 metri. Assistiamo, però, anche a un’altra agonia, quella della marina russa e, in particolare, di quelli che ne sono stati sempre l’orgoglio: i sottomarini. Attualmente, secondo accreditate stime occidentali, la flotta ne conta – operativi o quasi – un centinaio da combattimento più sei non armati per missioni speciali. Dei cento, una settantina sono a propulsione nucleare; i rimanenti, diesel elettrici. Dei primi fanno parte quelli che sono armati con missili balistici che possono essere lanciati restando in immersione (submarine launched ballistic missile – SLBM), e a questa categoria appartengono le classi Delta I, Delta III, Delta IV, con 16 tubi di lancio, e la già citata Typhoon, con 20. Inoltre, appartiene alla categoria dei sottomarini balistici nucleari, ma deve emergere per lanciare perché porta missili superficie / superficie (surface / surface ballistic missile – SSBM), anche la classe Oscar II, quella del Kursk. Ancora a propulsione nucleare, ma definite “d’attacco” perché non dispongono di missili balistici ma solo di 6/8 tubi lancia siluri, sono le classi Victor III, Sierra I, Sierra II, Akula. I rimanenti – diesel elettrici – sono pure progettati per l’attacco ai vascelli in superficie e considerati d’attacco”. In effetti la situazione della flotta russa e in particolare quella dei sottomarini, all’epoca era disastrosa, come acclarato dal reportage Rai dedicato alla base strategica russa. “A causa dei drastici tagli alla spesa militare, manca il carburante per fare esercitazioni, la manutenzione scarseggia o è addirittura nulla, l’addestramento del personale è pressoché inesistente, la pratica della cannibalizzazione (riparare un mezzo sostituendo il pezzo guasto con quello di uno inefficiente) è diffusa. Il personale, che fino a dieci anni or sono si considerava di élite, è demotivato, con paga ridotta al minimo e con seri problemi di sopravvivenza. Possiamo quindi dire, con una buona probabilità di indovinarci (ancora oggi non è facile reperire informazioni sicure da fonti russe), che l’operatività della componente sottomarina della flotta russa è, nel migliore dei casi, del 40-50%. Tra l’altro, anche per l’effetto degli accordi sulla riduzione degli armamenti nucleari (Strategic Arms Reduction Talks – START I e START II) un certo numero di battelli sarà dismesso. Eppure, la flotta sottomarina dell’allora Unione Sovietica era la più potente del mondo. Questo, per un motivo facilmente spiegabile. Nelle previsioni degli strateghi sovietici, anche la terza Guerra Mondiale si sarebbe dovuta combattere in Europa e, poiché gli alleati europei della NATO non sarebbero stati in grado di opporre resistenza alla enorme forza d’urto delle truppe dell’Est, si sarebbe dovuto fare ricorso ai rinforzi provenienti dagli Stati Uniti. Ma questi sarebbero dovuti arrivare per via aerea (un certo numero) e per nave (la maggior parte). La misura preventiva presa dalla Nato era lo schieramento in Europa di truppe, mezzi, armi e munizioni Usa per resistere almeno al primo attacco. Da parte sovietica, il concetto strategico prevedeva, contemporaneamente all’attacco in profondità per via terra, di tagliare le vie di comunicazione marittime tra Stati Uniti ed Europa mediante una guerra navale condotta soprattutto con i sottomarini. Di qui, il grande sviluppo di mezzi idonei a combattere una guerra atlantica risolutiva. L’avvento delle nuove tecnologie favorì lo sviluppo della propulsione nucleare, in quanto un sottomarino atomico è di gran lunga più silenzioso di uno diesel elettrico e quindi molto difficile da individuare con le apparecchiature delle navi. La tendenza al gigantismo si sviluppò per l’esigenza di montare i missili balistici SLBM in grado di colpire il territorio avversario da notevole distanza e senza dover emergere. Ricordiamo che la classe Typhoon porta 20 missili, ognuno con dieci testate nucleari. Totale: 200 armi atomiche. La classe Oscar, invece, ne porta “solo” 16 e per lanciare i missili deve emergere. Cosa che non accadrà più al Kursk. Se pure il sommergibile di soccorso inglese RL5 riuscirà a salvare l’equipaggio (Lo speriamo ancora tutti e anche l’ammiraglio Alexandr Pobozhy che dice che “I veri sommergibilisti non perdono mai la speranza”) il gigante Kursk resterà in fondo al mare a fare idealmente compagnia agli altri 5 sottomarini nucleari (2 americani e 3 russi) che già dormono negli abissi con i loro equipaggi” – conclude Bernardi.

Oggi, recuperato il Kursk con i suoi misteri, la memoria dei 118 caduti del sottomarino nucleare, è affidata alla Fondazione (www.russialink.org.uk/kursk/index.htm) che aiuta le famiglie delle vittime a superare, non solo le difficoltà della vita quotidiana, ma anche il loro peggior incubo: l’amnesia sui fatti del sottomarino Kursh, ossia la perdita di memoria indotta dalle Autorità, ossia l’amnesia politicamente corretta e medicalmente assistita. Chi non ricorda la puntura di calmante somministrata a una familiare dei caduti del Kursk in diretta Tv?

Consigliamo la visione del reportage La tragedia del Kursk di Giovanni Minoli (www.youtube.com/watch?v=wW_T1Jl1V5o&feature=fvw) e la lettura del libro: K-141 La tragedia del Kursk, di Alessandro Turrini. Un utile strumento per fare luce sulle cause di uno dei disastri più controversi della marina militare moderna. Rivela Anna Maria Bracale Ceruti, autrice del poemetto L’affondamento del Kursk: “Ho scritto questo poemetto presa da profonda commozione e lo considero il mio omaggio ai 55 ufficiali e ai 63 marinai del Kursk; che fossero russi è stato assolutamente ininfluente. Mentre ascoltavo le notizie sull’affondamento del sottomarino avevo davanti a me il bellissimo mare di Sardegna, sinonimo di vacanza e gioia di vivere a contatto con l’acqua. Più stridente ancora, dunque, il contrasto con quell’avventura subacquea così tragica. La mia immaginazione, a poco a poco, ne è stata coinvolta: visioni oniriche e incubi notturni mi hanno indotta ad un progetto di poesia. Così ha preso forma questa composizione che va ad aggiungersi alla lunga serie di ‘poemi del mare’ già esistenti. L’immaginazione è «tramite umano alla verità», scrive Ettore Campa nel suo libro intitolato Per l’altro mare aperto (p. 31). L’affermazione è opinabile, ma alla luce di quanto si è scoperto dopo il recupero del Kursk, posso dire di essermi molto accostata alla realtà dei fatti. È che la morte in acqua mi ha sempre terrorizzata, perché è orribile e perché mi è stata predetta. La morte in acqua salata è simbolo del battesimo dell’uomo. Il mare ha capacità metamorfiche, è elemento avvolgente che abbraccia la terra e la unisce al cielo quasi in un gesto di riconciliazione. Narrare di un evento accaduto in fondo al mare vuole dire collocarlo fuori dal tempo: privi di cielo e stelle / perso ogni orientamento… Cielo e stelle sono per eccellenza elementi di riferimento della nostra avventura terrena. Il fondo del mare è perciò luogo estremo dell’operare dell’uomo: là ogni regola di terra viene sospesa, annullata, inghiottita. Colui che opera nelle profondità marine è dotato di temerarietà, coraggio, capacità di attribuirsi psicologicamente una natura ‘altra’. Se il prezzo pagato è la vita è giusto conferirgli lo spessore del mito. Il Kursk medesimo affondato in periodo di pace, è divenuto un mito della nostra epoca. È bello pensare, anzi immaginare, che i suoi eroi, abbandonando il corpo, abito di scena, siano stati amorevolmente avvolti dall’aria e che il loro desiderio di andare per mare se lo siano portato in quel peregrinare eterno nell’oltre o al di là, così si spera, accompagnati dall’eco della poesia”.

Scrive Massimo Alfano nelle sue Annotazioni sul Kursk:“La vicenda del sottomarino russo Kursk si presenta come uno dei più toccanti drammi del mare. Il manto di oscurità che ancora oggi copre le cause della sua perdita e le numerose ipotesi che sono state formulate per spiegarne la dinamica dell’avvenimento, nessuna delle quali pienamente provata, non fanno che aggiungere mistero ad una storia drammatica nel suo svolgersi e tragica nel suo epilogo”.

Se l’ingresso della Santa Madre Russia nella Nato, grazie ai due Presidenti Grandi Amici, Putin e Berlusconi, non è più un paradosso strategico né uno scherzo della storia o del destino, bensì il giusto riconoscimento dell’Unione Europa a un passato glorioso che merita oggi la memoria e il rispetto di tutti, va anche detto che la straordinaria esperienza della marina russa si rivelerà davvero preziosa per un futuro di Pace mondiale. E non solo per il potenziale tecnologico ed umano che la Russia oggi è in grado di esprimere, davvero senza precedenti nella storia delle marine militari. Ma per il fondamentale contributo che, nel rispetto, nella memoria e nell’onore, dobbiamo alle vittime del Kursk ed ai valori della difesa della Pace sulla Terra. Oggi la Dottrina della deterrenza nucleare è finita. Guai a noi se permetteremo a qualche pazzo di premere il bottone! Dobbiamo costruire un nuovo ordine mondiale, grazie alle Democrazie, fondato non sull’impossibile disarmo unilaterale, bensì sul rispetto delle Leggi e della Vita di ogni persona, con l’uso del Diritto e della Forza.

Il sottomarino Kursk portava il nome glorioso della cittadina in cui nel 1943 si svolse una delle battaglie decisive della Seconda guerra mondiale: la battaglia di carri armati più imponente della Storia, con 3mila panzer tedeschi schierati contro 4mila mezzi corazzati sovietici. Che nessun kolossal ha mai filmato. Ci siamo avvalsi della consultazione delle fonti più autorevoli in materia, per offrire al Lettore uno strumento di analisi e valutazione su una vicenda che, dopo la fine del Comunismo sovietico e della Guerra Fredda, pensavamo di aver consegnato definitivamente alla Storia.

Nicola Facciolini

2 risposte a “Tributo agli eroi del Kursk: dieci anni fa la tragica fine del sottomarino russo”

  1. Falco ha detto:

    Per non dimenticare! Grazie Nicola Facciolini.

  2. Vladimir ha detto:

    Salve! Ho alcun materiale (non diffuso a proposito di questo discorso), in più sono in contatto con madri dei marinai del KURSK, che hanno molto da raccontare . Se siete interessati, contattatemi per un appuntamento. +39 338 9668195

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