Ricostruzione dell’Aquila: un caso di schizofrenia progettuale?

All’indomani del terribile sisma, ci eravamo lasciati cullare dall’illusione – se non altro fortemente terapeutica – che avremmo saputo trasformare la tragedia in opportunità, che avremmo avuto l’intelligenza di ricostruire non una nuova città, ma una città nuova, più bella e funzionale di prima. Oggi, dopo oltre tre anni, questo auspicio non sembra avverarsi e […]

All’indomani del terribile sisma, ci eravamo lasciati cullare dall’illusione – se non altro fortemente terapeutica – che avremmo saputo trasformare la tragedia in opportunità, che avremmo avuto l’intelligenza di ricostruire non una nuova città, ma una città nuova, più bella e funzionale di prima.

Oggi, dopo oltre tre anni, questo auspicio non sembra avverarsi e non solo per la dilatazione dei tempi della macchina amministrativa o per la scarsa disponibilità di fondi.

Quello che veramente impedisce la palingenesi dell’Aquila è la mancanza assoluta di una idea di città, di un disegno demiurgico, di una logica complessiva che dovrebbe ispirare la riprogettazione dell’intero territorio, a livello urbanistico e architettonico. E ciò nonostante le indicazioni dei più illuminati tecnici della materia ed il loro pressante invito a condurre la ricostruzione all’interno di una visione unitaria.

Limitandoci al solo centro storico, abbiamo ad esempio i due casi concettualmente contrastanti della ex-scuola De Amicis e dell’auditorium di Renzo Piano. Nel primo caso si è imboccata la strada del “dov’era-com’era”, appellandosi ai valori identitari dell’edificio e rinunciando ad altre soluzioni architettoniche più radicali e meno costose che avrebbero riqualificato l’intera area di San Bernardino. Nel secondo caso, invece, non si è esitato a stravolgere massicciamente un’area di valenza altrettanto identitaria come il parco del Castello, collocandovi un ingombrante e costoso edificio di stile contemporaneo.

Quale la logica dominante, allora, dal momento che le due scelte sembrano guidate da una confusa schizofrenia progettuale?

Il timore è che si vada riconfermando la vecchia teoria del pieno e del vuoto, seconda la quale il pieno (cioè il già costruito) va comunque conservato e consolidato senza neanche tentare coraggiose soluzioni innovative, mentre il vuoto (cioè gli spazi pubblici) sono percepiti unicamente quali serbatoi di suolo su cui costruire liberamente ex novo.

In questo scenario contraddittorio, l’unico elemento di coerenza sembra essere quello di ignorare metodicamente il parere dei cittadini, spacciando peraltro per “provvisorie” delle opere di fatto inamovibili.

Walter Cavalieri

4 risposte a “Ricostruzione dell’Aquila: un caso di schizofrenia progettuale?”

  1. Antonio Porto ha detto:

    Come si può dialogare con chi ( leggi amminitsrazione aquilana) ha altri obiettivi sulla ricostruzione, le distanze sono abissali. Nè la cittadinanza è interessata alle temartiche, che condivido, ma che non appassionano le persone, tutte interessate a risolvere i problemi individuali e a “fare la cresta” sui contributi!

  2. Ernesto Santucci ha detto:

    Effettivamente non si capisce quali sono i criteri per una ricostruzione serie e intelligente che faccia ritornare L’Aquila come era e dove era…Per chi vede i fatti da lontano,sembra che regni un’apatia,uno scoraggiamento,una depressione che avvolge tutti i livelli… Possibile che non ci sia nessuno capace di rimboccarsi le maniche e farle rimboccare anche agli altri ?
    Mi viene in mente il titolo di un romanzo…..”E le stelle stanno a guardare….”

  3. […] illuminanti e degne di nota le recenti riflessioni del professor Cavalieri sulle contraddizioni nelle quali ripetutamente cade la governance aquilana: “…Limitandoci al […]

  4. Last2 ha detto:

    In realtà le brevi riflessioni di Cavalieri presupporrebbero una discussione di alto profilo urbanistico che a L’Aquila è mancata anche prima del sisma del 2009. Condivido pienamente e aggiungerei una notazione di carattere economico. A noi singoli cittadini è stato chiesto di dimostrare la convenienza economica della demolizione rispetto alla ristrutturazione degli edifici privati. Il più delle volte le cose stanno realmente così soprattutto per edifici molto danneggiati o datati nella progettazione. Mi chiedo come mai non si faccia una valutazione di carattere economico anche per gli edifici pubblici, compreso il caso della De Amicis. Da non esperto del campo arrivo a pensare che anche in questi casi sarebbe stato più economico demolire che riparare. A ciò si aggiunga la responsabilità di dare alle future generazioni un patrimonio di edifici solamente “rappezzati” nel centro storico e che al prossimo disastroso terremoto andranno nuovamente giù. Ci vorrebbe coraggio nel cambiamento che questa città non ha mai amato molto. (IMMOTA MANET…)

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