Gravity, i segreti del film sulla quarta forza fondamentale della Natura

“Non opporsi all’errore, significa approvarlo. Non difendere la verità, equivale a negarla”(San Tommaso d’Aquino). La spettacolare sequenza di apertura del nuovo film Gravity (Usa e Regno Unito, 2013, 90 minuti) è sicuramente fantastica in 2D come la luce del cinema insegna e comanda. Almeno fino alla definitiva estinzione dei fastidiosi occhialini scuri 3D da inforcare […]

“Non opporsi all’errore, significa approvarlo. Non difendere la verità, equivale a negarla”(San Tommaso d’Aquino). La spettacolare sequenza di apertura del nuovo film Gravity (Usa e Regno Unito, 2013, 90 minuti) è sicuramente fantastica in 2D come la luce del cinema insegna e comanda. Almeno fino alla definitiva estinzione dei fastidiosi occhialini scuri 3D da inforcare obbligatoriamente con la gravità terrestre. Ma la Scienza finisce qui, subito dopo la prima scena di Gravity. Un antico brocardo vulcaniano insegna che è meglio tenersi la testa perché il rischio di perderla è sempre in agguato. Fuor di retorica e di metafora, sulla Terra e sugli altri Mondi dell’Universo, la Gravità è una delle quattro Forze fondamentali della Natura. Esistiamo grazie ad essa. Nei suoi lunghi viaggi interstellari a bordo della nave Uss Enterprise, il signor Spock, l’ufficiale scientifico della Flotta Astrale nella Federazione dei Pianeti Uniti, viene rapito da alieni di un’antica civiltà ormai estinta sulla superficie del loro pianeta (Operazione Cervello, Spock’s Brain, terza stagione della serie classica di Star Trek, ). A caccia di memorie vitali delle intelligenze ET, grazie a una tecnologia molto avanzata, riescono nientemeno a sottrarre il cervello del geniale vulcaniano Spock per ripristinare un super computer. Per tenere in vita quel che resta della loro civiltà. L’inquietante ratto, effettivamente eseguito a regola d’arte, per fortuna di Spock, fu sventato dal provvidenziale intervento del dottor McCoy e del capitano Kirk che riescono a reimpiantare il cervello di Spock usando la stessa tecnologia aliena impiegata per l’immorale gesto. Nervo su nervo, ganglio su ganglio, tutte le terminazioni nervose, le arterie e le vene, compresa la complessa rete spinale vulcaniana, vengono miracolosamente riconnesse alla perfezione nel corpo di Spock. Una puntata originale e memorabile, più pacifica di quella eseguita dagli spietati marziani di “Mars Attack”. Il trapianto di cervello e dell’intera testa, oggi è Scienza Medica Sperimentale (Surgical Neurology International). Ma Gravity supera ogni giustificazione possibile e immaginabile. La consulenza scientifica della Nasa impiegata per realizzare il film, è risibile. Alcuni critici paragonano la pellicola addirittura al miglior Antonioni. Kubrick di “2001: Odissea nello spazio”, di gran lunga il più bel film di fantascienza dopo “Le voyage dans la Lune” di Georges Meliès del 1902, avrebbe sicuramente riso a crepapelle. Gravity è da vedere, ma con giudizio, perché, dopo il disastro dello Space Shuttle Columbia del 2003 e la grandiosa tecno-fantascienza di “Apollo 13” e di “The Right Stuff”, non riesce a convincere del tutto sulla bontà dell’operazione cinematografica. Forse, valoriale. Chissà! Il segreto per vedere fino in fondo Gravity di Alfonso Cuaròn, senza ridere e senza rinunziare alla proverbiale “suspension of disbelief”, cioè quella sensazione per cui lo spettatore al cinema deve “far finta di crederci” per divertirsi, ossia deve diventare complice del regista e degli attori, è ammettere che il Mondo e la Civiltà umana siano in così profonda crisi antropologica da tenersi a galla per puro miracolo. Grazie alla Provvidenza divina ed alla gravità. Dopo 400 anni di Scienza galileiana e newtoniana, dopo la Relatività di Einstein, la Meccanica Quantistica, i Buchi Neri, i Computer Apple e il Bosone di Peter Higgs, francamente è troppo. Per un colossal in 3D, chiaramente sponsorizzato dalla Nasa che fornisce vere panoramiche della Terra dallo spazio, con le fantastiche aurore polari che valgono la visione del film, si pretende il meglio. Come solo il film etico “Man of Steel” di Zack Snyder riesce a fare, celebrando l’umanità extraterrestre di Superman, dalla nascita di Kal-El su Krypton all’infanzia ed all’età adulta sulla Terra. Un ode alla vita, alle autentiche relazioni genitoriali e filiali. La storia di Gravity è abbastanza realistica all’inizio. Arriva uno sciame (visibile!) di detriti che distrugge uno Space Shuttle al lavoro sul famoso Hubble Space Telescope, strumento in orbita intorno alla Terra dal 1990 del secolo scorso. Nella realtà, i detriti hanno velocità di diversi chilometri al secondo, per cui si vedrebbero arrivare molto meno di un proiettile di fucile, anche se abbastanza grossi. Molto più fedele è la scena iniziale di Armageddon (Usa, 1998). Nel film Gravity sembra che i detriti arrivino “al rallentatore” svolazzando come sassi che cadono da una parete. Altro che pazienza! La prima piccola dose di “sospensione della credibilità” (FFDC) è già tossica. Che succede? Sopravvivono in due intorno all’Hubble Space Telescope. L’astronauta veterano George Clooney, medico di bordo che le sa tutte da paternalista-maschilista qual è; e la giovane affascinante scienziata Sandra Bullock, molto più credibile nella parte di Payload Specialist, una donna vera che, grazie alla liberalizzazione e privatizzazione dell’impresa spaziale, ha convinto la Nasa ad accorciare e intensificare l’addestramento degli astronauti. Una che, secondo i veterani dell’universo di Gravity, ha fatto un corso settimanale solo per andare a riparare il suo adorato strumento. Una space-cowgirl con i fiocchi, la Bullock! Bravissima Sandra. Il problema è che, a rigor di fisica galileiana e newtoniana, il film dovrebbe finire qui. Distrutto lo Shuttle dai detriti, non tornerebbe a casa nessuno. Naturalmente. Seguirebbe, al massimo, un triste messaggio del Presidente Usa alla Nazione ed al Mondo, con funerali spaziali degni di Spock. Invece, Gravity va avanti. Come? Con una pura intuizione “fantasy” di George: usare i plausibili ma deboli getti di stabilizzazione della tuta speciale, per arrivare alla Stazione Spaziale Internazionale. Ora, la ISS è su di un’orbita completamente diversa, quasi perpendicolare a quella dell’Hubble Space Telescope, con una differenza di quota di almeno 150 chilometri. L’impresa oggi è molto più impossibile che chiedere alla vecchia zia Amanda di scalare l’Everest. Semplicemente è un’impossibilità fisica. Non per gli autori di Gravity e i loro consulenti Nasa. Seconda massiccia dose di FFDC. Svengo! Invece si va avanti. Solo Sandra, però, ce la fa. Entra nella ISS, ovviamente disabitata, e finalmente si toglie la tuta. Scena finale degna del Tenente Ripley nel capolavoro “Alien” di Ridley Scott. Sorpresa! Sotto la tuta, la bella Sandra indossa solo una canotta e un paio di calzoncini molto succinti. Nient’altro. Effetti dell’evoluzione tecnologica indotta dalla liberalizzazione dell’impresa spaziale. Magari! Per fortuna Sandra vuole solo essere sexy. Perché in realtà oggi, dopo 60 anni di voli orbitali e lunari umani, sotto quella tuta c’è molto altro da indossare. Dov’è, ad esempio, il pannolone spaziale? Sì, perché anche le belle astronaute, nella migliore delle ipotesi, fanno la pipì quando stanno diverse ore nello spazio esterno in attività extraveicolare (EVA). Sandra spegne un incendio a bordo della ISS, salta nel modulo russo di salvataggio Soyuz e riesce ad arrivare a una misteriosa Stazione Spaziale cinese che, guarda caso, passa proprio lì “vicino”!  Altra massiccia dose di FFDC. Non muoio per miracolo. Altro trasferimento orbitale, stavolta mediante l’estintore che con il suo getto la spinge nello spazio. È la parte più credibile di Gravity. Sandra salta nel modulo cinese che però ha i comandi tutti scritti nella lingua del Celeste Impero. Per cui, giusto per tentare la sorte, lei li schiaccia un po’ tutti a caso. Altro miracolo! Riesce ad atterrare sana e salva sulla Terra. L’overdose finale di FFDC ti schiaccia sulla poltrona con un effetto gravitazionale “G” elevato all’ennesima potenza. Non si è in grado di valutare subito le proprie condizioni. Il 3D, se non fosse per l’oscuramento delle lenti, sarebbe certamente più avvolgente e struggente con la giusta colonna sonora, navigando nel cielo infinito. Forse esagero. Il fatto è che Venezia ha lanciato la prima seria candidatura a un Oscar e la statuetta pare che sia diretta, come migliore attrice protagonista, sulla splendida Sandra Bullock. Gravity, come sapete, ha dato ufficialmente il via, alcune settimane fa, alla 70esima Mostra del Cinema di Venezia. Costretta nello scafandro da astronauta messole addosso dal messicano Alfonso Cuaron, la Bullock dà vita a una performance superlativa, considerando le difficoltà incontrate sul set. “È stato uno dei ruoli più difficili, sia dal punto di vista fisico sia mentale – rivela l’attrice – eravamo costretti a girare dentro un boxlight, in assenza di gravità (magari di peso per il bilanciamento della forza “G”, NdA) con le macchine da presa che ti arrivavano addosso a velocità sostenuta. Ci voleva molta concentrazione. Mi sono dovuta allenare molto. Volevo regalare ad Alfonso un corpo-macchina, androgino, che non avesse più elementi di femminilità. Un corpo che doveva esprimere il senso di perdita, il lutto: questo doveva passare dalla trasformazione del mio corpo e dalla mancanza di una sua componente fondamentale”. A supportare l’attrice, oltre al personal trainer, un passato nella danza e una passione per la musica, c’era il compagno di set, George Clooney. “È stata incredibile guardarla recitare – dichiara l’attore – doveva muoversi molto lentamente, come succede in assenza di gravità, e parlare molto velocemente. Una cosa complicatissima”. Molto più semplice la preparazione dell’attore. “Ho bevuto più del solito, tutto qui” – ironizza George. “La danza e la musica mi hanno aiutato in questo – spiega l’attrice americana – mi annoio a fare ginnastica, così sparavo la musica per un’ora e non mi fermavo mai, mi sentivo una bambina di 3 anni. A proposito, anche mia figlia di 3 anni è stata di aiuto: pesa parecchio. Comunque se dovessi rinascere vorrei essere un’atleta. La musica mi ha anche permesso di raggiungere quel posto nella mia mente che serviva a Cuaron per il personaggio”, una donna per la prima volta nello spazio che precedentemente ha perso una figlia di 4 quattro anni in un incidente. E la preparazione non è finita qui. “Ho parlato anche con alcuni astronauti nello spazio – rivela Sandra – ho fatto delle domande bizzarre su come il corpo reagisce all’assenza di gravità. Gli astronauti sono persone normali che fanno cose straordinarie”. Certamente poche sono le volte in cui si esce dal cinema consapevoli di aver fatto la scelta giusta, acquistando il biglietto, perché si è deciso di vedere un film sullo spazio. Si contano sul palmo di una mano: è successo con “Avatar” nel 2010, in maniera sorprendente si è ripetuto con “Man of Steel” nel 2013. Ma con Gravity, uno dei rari film in cui la terza e la quarta dimensione hanno ragione di esistere oltre a un mero fattore di spettacolo, qualcosa non va. Il nuovo coraggioso lavoro di Alfonso Cuarón è un viaggio onirico fuori dall’atmosfera terrestre. Un film nello spazio psicologico, piuttosto che un film sullo spazio. Costato appena 80 milioni di dollari, meno della metà di “Titanic” e quasi un terzo di Avatar, Gravity rappresenta l’incontro tra l’avventura creativa e l’incubo tecnologico indotto dalla disinformazione scientifica e tecnologica di massa, frutto dell’Hiroshima culturale politicamente indotta dai politicanti dei governi sulla Terra. Tim Webber, capo effetti speciali e braccio destro del regista messicano negli oltre due anni di lavorazione di Gravity, ammette che “il progresso tecnologico è così veloce al punto che il mio mestiere può essere stravolto nel giro di ventiquattr’ore. A volte capita che ti propongono il film e non hai idea di come farai a realizzare alcune sequenze perché la tecnologia adeguata non esiste ancora. Dovrai essere tu a inventarla. È stato così per Gravity”. La vita di un Visual Effects Supervisor, per quanto pioniere tecnologico, comporta una sana dose quotidiana di stress. Chiusi in una stanza al buio per mesi e mesi, mentre sgobbano su libri di scienza, fisica ed astronomia. “È stata una lezione no-stop di Fisica. L’assenza di gravità può essere simulata soltanto in uno di quegli aerei specializzati nella caduta parabolica, usati per addestrare i piloti della Nasa. Così è stato girato Apollo 13. In quel caso l’effetto dura solo qualche minuto. Abbiamo subito capito che non avremmo potuto farlo in volo. Si è trattato di un lavoro senza fine: la preparazione è durata nove mesi. Tredici settimane di riprese. E più di un anno e mezzo di post-produzione”. Interessante, per 90 minuti di volo! Ma come si fa ancora oggi a confondere la perdita di peso e di gravità? Qual è dunque il segreto di Gravity? “Il trucco è mixare gli effetti speciali e la loro tecnologia. Solo in questo modo si avrà un effetto sorpresa verso chi sta a guardare”. Webber parla delle nuove apparecchiature utilizzate sul set di Cuarón. Aggeggi dai nomi più disparati, “la scatola delle luci” e “la lavatrice”. Nel primo caso un enorme schermo televisivo illuminato da un milione e ottocentomila luci, dentro il quale vengono piazzati gli attori. “Sono tutte luci a LED che possiamo controllare. Hanno la funzione di illuminare gli attori ed allo stesso tempo di ingabbiarli ed aiutarli a sentirsi isolati, seppure nel bel mezzo del set”. Più curiosa è la “lavatrice”, servita soprattutto a immortalare una delle sequenze più memorabili del film: lo striptease di Sandra Bullock nella navicella spaziale. “Paradossalmente inquadrare un attore nudo è stata la cosa più difficile. Perché i vestiti almeno servono a nascondere gli effetti speciali. Per questo abbiamo usato ‘la lavatrice’, composta da una serie di robot meccanici che muovono le lampadine in tutte le direzioni. Solo in quel modo siamo riusciti a cogliere i veri movimenti del corpo della Bullock in assenza di gravità”. Cioè in apparente assenza di peso. Se in alcune inquadrature di “Titanic” tutto ciò che stava attorno agli attori era principalmente digitale e in Avatar perfino i protagonisti erano creazioni computerizzate, Gravity rappresenta una via di mezzo. Perché i volti degli astronauti George Clooney e Sandra Bullock sono reali, a differenza dei loro corpi. “Solo la faccia è loro. Abbiamo ricreato al computer perfino le uniformi da astronauta. James Cameron aveva fatto indossare ai suoi attori delle tute con sensori per catturarne ogni movimento ed espressione. Noi i movimenti li abbiamo ricreati ex novo”. In principio era il CGI (“Final Fantasy”, 2001) poi il “motion capture” di cui Zemeckis è stato il pioniere con “The Polar Express del 2004, chiamato anche “performance capture” per non sminuire o irritare nessun attore. In Gravity, invece, la recitazione aiuta la tecnologia. E soltanto dopo viceversa. “La preparazione metodica è tutto – spiega Webber – è anche vero che c’era bisogno di elasticità nelle scene con dialoghi emotivi. Ecco perché abbiamo riprogrammato i robot che muovevano la macchina da presa: abbiamo ordinato loro di essere meno veloci nelle inquadrature, in modo da dare agli attori qualche secondo in più per riempire lo spazio con la loro emotività. Qualche libertà creativa – confessa – c’è stata ed è legata alle zone della Terra che di tanto in tanto vediamo alle spalle dei protagonisti. Ovviamente la prima cosa che vedete è il Messico in onore di Alfonso. Dopodichè c’è anche l’Italia, che è il posto in cui vivono i suoi figli. Naturalmente mi sono assicurato di avere in scena il mio amato Galles. Niente di poco credibile però, anche in quel caso abbiamo calcolato un’orbita personale!”. È una buona scusa per fare un “viaggio nello spazio” e vedere la Terra da una prospettiva orbitale. Gli astronauti pubblici che hanno questo onore, oggi sono pochissimi. Visitare alcune delle macchine dell’umanità più sofisticate in orbita, come l’Hubble Space Telescope, la Stazione Spaziale Internazionale e il veicolo spaziale Soyuz, tutti riprodotti con minuzioso dettaglio fino alle etichette dei bottoni sul pannello dei comandi, è certamente divertente e godibile standosene comodamente seduti sulla poltrona di un cinema con i piedi ben saldi per terra. Magari inforcando occhialini 3D chiari e luminosi, per capire cosa realmente accade lassù in orbita terrestre. Ma Gravity fallisce miseramente nella corretta comunicazione scientifica che andrebbe instillata capillarmente grazie alla potenza del cinema. Beh, mi dispiace, ma non possiamo giustificare nemmeno un poco, le troppe licenze e libertà degli Autori. Una serie di impossibilità fisiche sospendono fin troppo bene qualsiasi giudizio positivo in proposito. Salviamo pure gli Attori. Premiamoli. Sono da Oscar della pazienza! Ma, francamente, volare dall’Hubble alla ISS con un “jetpack”! Andiamo. Sono in orbite completamente diverse, altitudini diverse, velocità orbitali diverse, piani diversi. Lo riconosciamo. Siamo meritevoli dei più tragici politicanti. Lo spazio non è ancora, agli inizi del XXI Secolo nel Terzo Millennio cristiano, il nostro lavoro quotidiano! I trasferimenti orbitali fuori piano possono dare mal di testa, semplicemente perché non sono intuitivi come il volo terrestre a bordo di aerei pubblici e privati. E richiedono molto, veramente molto propellente chimico. Non è roba per un minuscolo “jetpack”. C’è poi il momento drammatico in cui il coraggioso comandante George rilascia il moschettone che lo lega alla sua compagna di equipaggio. È certamente di grande impatto emotivo vederlo fluttuare via sotto l’incantesimo di una qualche forza oscura degna di Star Wars. Ma, in realtà, non sarebbe accaduto molto. Avrebbe solo continuato a fluttuare proprio lì. Non hanno senso, dal punto di vista delle reali operazioni spaziali sulla ISS, tutta una serie di “storie” campate in aria nel film Gravity. A cominciare dall’addestramento. La Dr. Stone dice che si è addestrata in sei mesi per il suo volo. Oggi, sulla Terra, ci si addestra nelle pubbliche Agenzie Nasa, Esa, Russa, Cinese e Giapponese per due anni e non bastano che per i “preliminari”. Ne occorre ancora un altro e nemmeno è sufficiente per pilotare un veicolo spaziale. I cavi di sicurezza. Durante le scene della riparazione dell’Hubble Space Telescope si vedono molti attrezzi in volo libero. In una passeggiata spaziale reale, niente viene mai lasciato non legato. E i membri dell’equipaggio sono in aggiunta attaccati con un cavo di sicurezza auto-avvolgente che li tirerebbe indietro verso la struttura se si staccassero. Il volo con il “jetpack”. Veramente i membri dell’equipaggio non volano intorno a quel modo. Il jetpack, chiamato SAFER, è solo una misura di sicurezza aggiuntiva: ha giusto abbastanza gas per volare rapidamente indietro verso la struttura se uno se ne dovesse mai staccare. La perdita delle comunicazioni. I satelliti per le comunicazioni, chiamati TDRS, sono “geostazionari” come insegna il loro grande inventore Sir Arthur Charles Clarke. Sono in un’orbita di 36mila Km dal centro della Terra. Non possono essere abbattuti da detriti che volano “intorno” in un’orbita terrestre bassa. L’Ossigeno (O2) che si esaurisce nella tuta. In realtà, la prima riserva che ad esaurirsi sarebbe la purificazione dell’Anidride Carbonica (CO2). La Dr. Stone, dunque, sarebbe morta d’intossicazione da CO2 molto prima di finire l’Ossigeno. I portelli “airlock”. Nel film la Dr. Stone sembra particolarmente addestrata a “invadere” qualunque Stazione Spaziale le capiti a tiro nella sua stessa orbita girando una conveniente maniglia esterna del portello dell’airlock. I portelli si aprono convenientemente verso l’esterno e gli airlock sono ovviamente isolati dal resto della Stazione. Nella realtà, non esistono maniglie esterne sui portelli e non si tengono gli airlock isolati: sulla ISS se si apre il portello, si depressurizza l’intera Stazione. Addio Parmitano e compagni! Inoltre, i portelli esposti al vuoto spaziale si aprono verso l’interno, non l’esterno, altrimenti non sarebbero molto sicuri. Non credete? Pensate a tutta quella pressione interna che vuole spingerli ad aprirsi tutto il tempo. Naturalmente, visto che si aprono verso l’interno dovreste prima depressurizzare l’airlock, altrimenti vivreste un quarto d’ora molto difficile nel tentativo di aprirli. Altri veicoli spaziali. Sulle varie Stazioni convenientemente localizzate sulla stessa orbita, la Dr. Stone trova anche veicoli spaziali abbandonati dall’equipaggio della Stazione. In realtà, oggi esistono due soli veicoli spaziali Soyuz per le sei persone che compongono l’equipaggio della ISS, i soli probabili potenziali sopravvissuti terrestri a un’eventuale estinzione di massa sulla Terra. Se gli astronauti debbono andarsene, li usano entrambi. Su una Stazione Spaziale evacuata non sarebbero rimaste Soyuz! Fare le pulci ai dettagli scientifici di un film come Gravity può essere divertente. Ma non si finirebbe mai. Almeno per tutta la durata della pellicola. Meglio lasciarsi coinvolgere dal dramma, senza fare troppo attenzione a così “piccole” licenze. È un consiglio per l’Academy. È pur vero che, se si decide di fare un film che attirerà “critici” come una calamita attira la limatura di ferro, i problemi di verosimiglianza finiranno per creare più “audience”. Geniale! Gravity è un film che non si discute sul piano cinematografico e interpretativo. L’arte è libera di fare quel che vuole. E lascia a bocca aperta. Sul piano emotivo coinvolge quel che basta. Ma le licenze che si prende non sono piccole. La tensione ha lo spiacevole inconveniente di finire con i titoli di coda del film che dovrebbe subito ricominciare daccapo, stavolta scientificamente corretto! Purtroppo, nessuno di noi si è mai trovato in orbita attorno alla Terra, quindi la situazione fisica non è esattamente familiare e le incongruenze non sembrano così evidenti e gravi. Ma, poiché dovremo prima o poi spiccare il volo interstellare, pubblico o privato che sia, per salvare la Terra e l’Umanità, è giusto insistere per consegnare ai giovani un futuro decisamente migliore e più libero dalla “gravità” di certe amenità. La Terra ci attira verso di sé con una Forza chiamata Gravità, come il titolo del film. Non possiamo farci nulla, se non cadere. Sempre. La Forza di repulsione elettromagnetica ci impedisce di sprofondare al centro della Terra. Il nostro pianeta azzurro cade lentamente ma inesorabilmente verso il Sole insieme a tutti gli altri corpi celesti del Sistema Solare. Come? Orbitando attorno al nostro Luminare, la più potente macchina gravitazionale con cui abbiamo a che fare, lungo percorsi orbitali apparentemente stabili. Ma perturbabili dalla gravità. Al massimo, possiamo rimandare l’inevitabile, prolungando la caduta, ovvero mettendoci in orbita terrestre. Sempre caduta è, ma lungo una traiettoria più scaltra di quella che ci porta dritti a sfracellarci contro il “muro” dell’atmosfera. Se ci sembra di essere senza peso, non è perché la gravità non ci sia, ma perché, appunto, stiamo cadendo. Immaginate un ascensore che precipita al suolo. Lo spazio e la mancanza di aria non c’entrano affatto. Si può ottenere lo stesso effetto, anche se per periodi di pochi minuti, cadendo con un aereo a quote molto più basse. È il vero addestramento fatto dai futuri astronauti. Quindi, non abbiamo scelta. Dobbiamo cadere. O cadiamo orbitando, o cadiamo nella maniera tradizionale. Se cadiamo dritti verso l’atmosfera, consiglio di evitare di affidarsi alla fortuna per trovare l’angolo giusto d’ingresso. Perché se sbagliamo, anche di pochissimo, la navicella non trova l’assetto da sola. È come prendere un muro. Addio! Si finisce bruciati come lo Space Shuttle Columbia. Se invece vogliamo restare in orbita, ci dobbiamo muovere a una certa velocità. Non siamo noi a decidere quale. La velocità dipende dalla quota. Ergo, quota diversa, velocità diversa. La quota dell’Hubble Space Telescope è di 559 Km. La ISS orbita tra 330 e 430 Km. La Stazione Spaziale cinese Tiangong, tra 352 e 360 Km. Non solo sono oggetti molto distanti tra loro, ma viaggiano in direzioni diverse. Per colmare differenze di velocità di centinaia di chilometri all’ora tra l’una e l’altra, serve ben altro della buona fortuna della bella Sandra! I detriti spaziali viaggiano rispetto agli astronauti a velocità di decine di migliaia di chilometri all’ora. È per questo che fanno molto male nel caso d’impatto. Non avreste il tempo di vederli arrivare. La licenza gigantesca di Gravity è presto servita. Se siamo legati con un cavo a un’altra persona, la differenza di velocità è zero. Siamo immobili l’uno rispetto all’altra. Se sganciamo il cavo, restiamo dove siamo. Sarebbe folle darsi una spinta e girare senza motivo con il nostro jetpack attorno allo Shuttle, come un bambinone alle giostre. Questa non è fantascienza. Ci sono regole da rispettare, per esempio le leggi della fisica che tutti i padri della fantascienza hanno sempre fatto rispettare, più o meno. Ma non è neppure “fantasy” che ha altre regole. Affidare la riparazione del Telescopio Hubble a un medico potrebbe essere uno degli elementi più realistici del film, perché è già successo. Nella missione Shuttle STS-61, la prima “servicing mission”, l’allora astronauta della Nasa, Story Musgrave, un medico, prese parte alla manutenzione e riparazione dell’Hubble in una serie di passeggiate spaziali. Le incongruenze di Gravity abbondano. I detriti a quella quota non possono mettere fuori uso i satelliti per telecomunicazioni che sono a quote ben più alte. Non esiste che uno specialista di missione piloti una Soyuz. È strano. Ma nonostante questo il film piace moltissimo anche agli scienziati ed agli astronauti. Forse gli Autori non hanno avuto la minima pretesa che fosse credibile, perché il film è fin dall’inizio un’immensa metafora degna del “blockbuster” americano, un’opera fatta per arrivare a molte persone digiune di Scienza. Non c’è niente di male in questo. Vero. Solo speravamo che da Korolev e Houston, arrivassero altre dritte! Magari un film fantascientifico su come salvare l’equipaggio dello Space Shuttle Columbia in un altro universo. Alla fine, Gravity è soltanto un film. Con il fantasma di Clooney che, dopo aver bombardato Mosca a colpi di bombe all’idrogeno nel remake “Fail Safe – A prova di errore” (www.youtube.com/watch?v=djqlAT-7be4) dell’Anno Domini 2000 e dopo l’avventura astronautica di Solaris del 2002 (altro remake del capolavoro di Andrej Tarkovskij) per farsi perdonare è disposto a tutto. In realtà non è dato sapere se l’intera struttura (rottame spaziale, cavo, estremità con Clooney attaccato) stia ancora ruotando intorno a un qualche asse creando di fatto un sistema di riferimento non inerziale, in cui George sarebbe quindi spinto verso l’esterno! Forse, semplicemente Clooney subisce un’attrazione gravitazionale tutta sua. È un’ipotesi generosa ma non compatibile con lo svolgimento della sequenza. La splendida inquadratura fissa che li riprende dal fianco prima che si lascino, alimenta la confusione perché è solidale al sistema di riferimento dei lacci. La scena è tecnicamente superlativa ma fisicamente è completamente inesatta. Difficile che tutto l’insieme sia in rotazione esattamente attorno ad un asse principale di inerzia per cui non ci sia precessione. Nella finzione scenica esiste un patto fra Autore e Spettatore: se riesce, beh, ci credi. È una delle regole base della narrativa, una legge che conoscevano molto bene i Greci e i Romani con i loro dei e semidei dell’Olimpo. Se poi riesce ad essere credibile (non “vero”, non “verosimile”) allora l’unica cosa che conta è la tensione drammatica. L’unica. Altrimenti la finzione è inutile. La “sospensione dell’incredulità” ha una soglia variabile da persona a persona. Non tutti credono alle situazioni di Gravity, come non tutti credono che una singola eruzione vulcanica farà esplodere un pianeta (Star Trek XII). Lo stesso potrebbe dirsi sui temi politico-economici e sociali, sulla mediocrità del politichese ridondante italiota della cosiddetta Seconda Repubblica. “Il Gladiatore” di Ridley Scott, al di là della verosimiglianza storica, è un gran bel film. Ma sulle leggi fisiche non si può fare sconti. Perché viviamo in esse. Amen! C’è da rimanere basiti di fronte a “ragionamenti” del tipo: il cinema è solo intrattenimento. Ci mancherebbe, George Lucas è il primo a sottoscrivere. Ogni film è pieno zeppo di circostanze inverosimili per la realtà, ma perfettamente verosimili all’interno del film. Ma allora perché scomodare la Nasa e i manufatti umani in orbita? Nei film d’azione, spesso si vedono auto esplodere dopo avere perso benzina. Esplodono con un moto che va dal basso verso l’alto, quando tutti sappiamo che è impossibile. Se esplode il serbatoio, l’esplosione andrà dall’interno all’esterno. Eppure, non vengono coinvolti consulenti della Nasa e dell’Esa. È cinema. Se la scena è funzionale al film, allora va bene, è perfetta. Verità e verosimiglianza nel cinema sono due cose diverse. Ma ci sono regole da rispettare, per esempio le leggi della fisica. Quando sembrano mostrare la realtà di manufatti costati 100 e più miliardi di euro pubblici. Guerre Stellari è uno dei film più fantasy che si conoscano: ha la magia, ha i cavalieri Jedi e i combattimenti con le spade laser, ci sono mostri, alieni e draghi, inizia con la famosa scritta “tanto tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana”. Non con la dicitura ormai classica:“tratto da una storia vera”. Avatar che pure si vanta di essere fondato su solide basi scientifiche, regge nella volontà del superamento delle 101 emergenze planetarie che oggi affliggono la Terra, nella difesa dei Popoli Nativi aggrediti sul loro territorio, nella liberalizzazione dell’impresa spaziale privata. La “colpa” di Gravity è forse l’aver voluto fare “fantascienza” in un piano molto più vicino alla realtà, senza scomodare gli Alieni. È la realtà. È chiaro che salvarsi la vita in un ambiente ostile ed affascinante come lo spazio, violando le leggi fisiche fondamentali, è semplicemente impossibile. In Gravity l’errore sembra voluto, altrimenti l’avrebbero girato sulla vera ISS. Fatto apposta. Tutto è divertente almeno quanto palesemente sbagliato. Come il politichese italiota. Il pannolone alla Bullock? Perché no? Il film ci avrebbe guadagnato. Sigourney Weaver in Alien, vive nel futuro, dove domina la libera impresa spaziale privata commerciale. Non quella pubblica delle Agenzie elefantiache che, a 63 anni dall’impresa di Gagarin, spediscono ancora l’Uomo nello spazio a bordo di speciali proiettili. Sì, il pannolone! Per ogni astronauta pubblico che si rispetti. Giovane o anziano. Gravity è stato lanciato negli Usa il 4 Ottobre 2013, in pieno “shutdown” governativo, con il sito della Nasa disattivato (“Due to the lapse in federal government funding, this website is not available. We sincerely regret this inconvenience”). Definire Gravity uno “space thriller” è riduttivo. Diretto da Alfonso Cuarón e scritto da Cuarón e suo figlio Jonás Cuarón, racconta la storia di Ryan Stone e Matt Kowalski, due astronauti persi nello spazio orbitale terrestre. No su Vulcano. No sul massiccio Krypton. Strana avventura definita “buon cinema” da alcuni critici. Bontà loro. L’astronauta della Nasa, Mike Massimino, non nasconde una certa dose di timore per il grado di accuratezza scientifica della pellicola. Se c’è un giudice di gara degno di nota e di attenzione, questi è Mike Massimino, ingegnere meccanico specializzato in robotica ed attività extraveicolari (EVA) direttamente impegnato nel 2009 nella reale missione finale di riparazione sull’Hubble Space Telescope. Durante le sue 16 ore di EVA, Massimino sperimentò i pericoli più insidiosi dello spazio orbitale. Quattro anni e mezzo dopo, la visione del film Gravity avrebbe messo alla prova le sue sensazioni più autentiche vissute lassù a 600 Km di quota. “Tutto è ok, non manca nulla, tutto è al proprio posto” – dichiara piuttosto sorpreso Massimino. Molte scene che immaginava tagliate nel film, compaiono in bella mostra. L’Hubble sembra vero. Sulle licenze artistiche degli Autori, sulle limitazioni “imposte” alle leggi della fisica, il vero astronauta taglia corto. “Penso che si siano prese alcune libertà perché – rivela Massimino – le vere passeggiate spaziali sono lunghe, laboriose e non calzano perfettamente in un film. È tutt’altra storia. Naturalmente, l’elemento focale che assicura il successo di Gravity è il dramma della vicenda che traspare dai volti di Sandra Bullock e George Clooney. Alcuni effetti sono stati certamente drammatizzati, amplificati, i pericoli dello spazio vengono rappresentati fedelmente in Gravity. Lavorare nel Cosmo è un business pericoloso – avverte Massimino – pensi sempre che da un momento all’altro la giornata può andare storta e nel film i due vivono proprio un giorno sfortunato”. Certamente su livelli di drammaticità lontani anni luce dal film “Abbandonati nello spazio” (Usa, 1969) di John Sturges. “Penso che il film Gravity mostri cosa può accadere nello spazio – spiega Massimino – ossia quel genere di cose che non ti aspetti, non prevedi, non simuli a terra e che nel volo spaziale in un modo o nell’altro possono capitare”. I frammenti di vecchi razzi, satelliti, guanti, bulloni, ad esempio, rappresentano un costante pericolo per gli equipaggi e le navicelle spaziali. Proiettili in grado di mandare al Creatore chiunque sulla ISS e sulla Stazione cinese in pochi istanti e senza troppi complimenti. Peggiore è la situazione orbitale dell’Hubble che però vola a una quota 100 miglia superiore a quella della ISS. Nella missione STS-125 dello Space Shuttle, Massimino e il suo equipaggio, non appena ultimata la riparazione al Telescopio Spaziale, guadagnarono subito l’orbita più bassa, sebbene fossero rimasti molti giorni esposti alle insidie dello spazio orbitale dell’Hubble. “Sul vero Telescopio Spaziale – rivela Massimino – il disco dell’antenna di alto guadagno aveva un buco delle dimensioni di un quarto di dollaro, forse prodotto dall’impatto di un sassolino o di qualcos’altro che l’Hubble ha incrociato nel suo volo orbitale. E quando abbiamo preso la macchina fotografica a largo campo dall’Hubble, abbiamo visto di nuovo, una volta tornati al Jet Propulsion Lab, gli effetti subiti dal radiatore esposto”. Gli astronauti pubblici come Massimino sono addestrati ad affrontare simili inconvenienti. Ma nulla è comparabile con l’impatto diretto di un frammento orbitale. Nello spazio esterno non abbiamo l’atmosfera della Terra a proteggerci. D’altra parte la Nasa non è stata in grado di salvare l’equipaggio dello Space Shuttle Columbia, pur sapendo che gli astronauti erano condannati. Nessuno consigliò loro di raggiungere la ISS. Non avevano il carburante per farlo. Né un portellone d’attracco adeguato. La depressurizzazione della tuta nello spazio è un’esperienza incredibile e fatale. Gli astronauti sono davvero addestrati a rammendare i buchi di micro-impatti nella tuta spaziale dei loro compagni. Ma contro uno sciame impazzito di oggetti, nulla da fare. Lo scenario descritto in Gravity, quindi, non è realistico. Semmai è assurdo. “Non ci addestrano a morire nello spazio sul simulatore” – chiosa Massimino. Nell’orbita operativa dello Space Shuttle, oggi al museo, quella pioggia di detriti sarebbe inconsueta. Anche per un test missilistico anti-satellite (ASAT) mostrato nel film. Nel 2007 ebbe effettivamente luogo, ad opera della Cina che volle dimostrare la sua capacità militare di abbattere qualunque oggetto in orbita terrestre. I cinesi spararono un missile ipersonico su un vecchio satellite meteorologico, ormai defunto, il Fengyun1C. Gli Stati Uniti risposero bersagliando un loro satellite, l’USA193. Il risultato finale di queste due folli azioni, fu la produzione di altri tremila nuovi frammenti orbitali destinati a bruciare prima o poi nell’atmosfera. I test anti-satellite sono una seria minaccia al volo spaziale pubblico e privato, quindi alla liberalizzazione e privatizzazione dell’impresa spaziale commerciale. Sarebbe saggio, superata l’amenità di Gravity, adottare un Codice di condotta internazionale in ambito ONU per abolire questi test, limitandoli alle simulazioni al computer. Magari pronti ad usare queste ed altre armi per proteggere la Terra dagli impatti cosmici di oggetti molto più veloci e velenosi. La capacità di produrre detriti in orbita, non è segno di intelligenza. Non soffocate la speranza della Scienza e della Tecnologia con le paure e il terrore della finzione cinematografica! Bisogna urgentemente liberalizzare e privatizzare l’industria spaziale commerciale. Un giorno tutti potremo navigare nello spazio a bordo delle nostre navette private. Come suggerisce Massimino “lo spazio è di tutti e per tutti, dobbiamo condividerlo insieme in pace, non possiamo continuare ad inquinare lo spazio orbitale terrestre senza conseguenze”. Una di queste è Gravity. Nei cinema, per fortuna!

© Nicola Facciolini

4 risposte a “Gravity, i segreti del film sulla quarta forza fondamentale della Natura”

  1. marios ha detto:

    Credo se la Bullock anche se indosssava il pannolone sotto la tuta sarebbe’ stata sempre sexy . A 49 anni fa invidia a molte donne.

  2. Pasquale ha detto:

    se avesse messo un pannolone sarebbe’ stata sempre sexy la Bullock. A 49 anni fa invidia a molte donne :-Pche

  3. Matt ha detto:

    Non metto in dubbio che l’odissea della bullock nel film sia una cosa impossibilissima nella realtà per i motivi che hai detto…ma dubito fortemente che ci siano stati spettatori convinti che il passaggio della protagonista da una stazione all’altra fosse in qualche modo verosimile. Il film non è libro didattico che ti vuole insegnare a quali quote stanno le varie stazione orbitali, racconta il dramma del protagonista o dell’uomo di fronte a qualcosa di molto più grande di lui. Capisco che le molte, troppe licenze di Cuaron lascino molto perplessi coloro che si intendono del campo (e non solo), ma andare a criticare Gravity e elogiare Men Of Steel mi sembra un po’ esagerato (anche se devo ammettere che non ho capito il collegamento tra i due film). Man of Steel ha una prima parte introspettiva e seria, ma l’attore protagonista è inespressivo e tt il resto del film è un “distruggi tutto” del combattimento tra Superman e Zod. Il film ha scazzato per quanto riguarda le leggi della fisica, ma il senso della storia raccontata e la recitazione dovrebbero essere criticate e analizzate separatamente. Il film ha vinto l’oscar per effetti speciali e per l’attrice protagonista, non per l’attinenza ai libri di fisica, quindi bisogna riconoscere i lati positivi e quelli negativi del film: attinenza alla scienza pessimo, ma recitazione e altri elementi prettamente attinenti alla cinematografia decisamente un voto più alto. Credo che quasi tutti coloro che hanno visto il film (anche quelli che lo hanno elogiato e lo hanno premiato) hanno storto la bocca nel vedere le peripezie impossibili dei due astronauti, e ciò influisce giustamente nel giudizio finale del film (non sarà un 10, ma un 7-8), ma non può influire nel giudizio degli aspetti prettamente cinematografici di questo.

  4. Valentina ha detto:

    Hai copiato la lista degli errori scientifici presenti nel film da un articolo della stampa di un astrofisico e li hai spacciati per tuo sapere. Hai copiato praticamente tutto l’articolo e ci hai aggiunto qualche commento. Poi hai anche firmato col ©. Ridicolo.

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