Pasqua Ebraica e Pasqua Cristiana 2015, festa della Liberazione e della Resurrezione

“La Settimana Santa è il tempo che più ci chiama a stare vicino a Gesù: l’amicizia si vede nella prova. Non esiste umiltà senza umiliazione. La Confessione è il sacramento della tenerezza di Dio, il suo modo di abbracciarci. Com’è dolce stare davanti al Crocifisso, semplicemente rimanere sotto lo sguardo pieno d’amore del Signore! Vegliamo […]

pasqua“La Settimana Santa è il tempo che più ci chiama a stare vicino a Gesù: l’amicizia si vede nella prova. Non esiste umiltà senza umiliazione. La Confessione è il sacramento della tenerezza di Dio, il suo modo di abbracciarci. Com’è dolce stare davanti al Crocifisso, semplicemente rimanere sotto lo sguardo pieno d’amore del Signore! Vegliamo pieni di speranza in attesa del Suo ritorno glorioso, quando la Pasqua avrà la sua piena manifestazione”(Papa Francesco). Hag Pèsach Sameach! Felice Pesach! Happy Passover! Buona Pasqua! Holy Easter! Misericordia di Dio e Santa Pasqua sono intimamente legate a un chiaro comportamento divino sulla Terra e nei Cieli. Al tramonto del 14 di Nissan, Venerdì sera 3 Aprile 2015, inizia la Pèsach, otto giorni di festa (in Israele sette) in cui si ricorda e si celebra la Liberazione del Popolo eletto dalla schiavitù d’Egitto. Il 15 Nissan dell’anno 5775 è il periodo in cui in Israele maturano i primi cereali. Pèsach è anche nota col nome Hag hamatzot, cioè Festa delle azzime. In Terra Santa dura sette giorni mentre nella Diaspora otto giorni: i primi due e gli ultimi due sono di festa solenne (Moed). Quest’anno il primo Seder ebraico viene celebrato la sera del 3 Aprile. Pèsach termina l’11 Aprile alle ore 20:30. Quando furono liberati dall’Egitto, gli Ebrei non ebbero il tempo di far lievitare il pane e in ricordo dell’evento, durante gli otto giorni è vietato cibarsi di qualsiasi alimento lievitato. Al suo posto si mangia il pane azzimo, la matzà. Nel celebrare il Seder si legge l’Haggadah che racconta la Storia degli Ebrei, dalla schiavitù egiziana alla liberazione grazie al Patriarca Mosè. Si consumano vino, azzime ed erbe amare in ricordo dei dolori e delle gioie degli Ebrei. La Settimana Santa ebraica coincide anche quest’anno con quella cristiana. Papa Francesco rivolge il suo “cordiale augurio di pace” alla Comunità Ebraica in occasione della Pèsach, la Pasqua degli Ebrei, che inizia al tramonto. Il Santo Padre auspica che “la memoria della liberazione dall’oppressione per mezzo del braccio potente del Signore” possa ispirare “pensieri di misericordia, di riconciliazione e di fraterna vicinanza a tutti coloro che soffrono sotto il peso di nuove schiavitù. L’Onnipotente, che ha liberato il Suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto per guidarlo alla Terra Promessa, continui a liberarvi da ogni male e ad accompagnarvi con la sua benedizione. Vi chiedo di pregare per me, mentre io assicuro la mia preghiera per voi, confidando di poter approfondire i legami di stima e di amicizia reciproca”. La Luna Piena pasquale di Sabato 4 Aprile 2015 delle ore 14:05 italiane (con relativa eclisse totale lunare visibile solo in Asia, Australia e America) ricorda che il calendario civile religioso a volte è perfetto. “Beati sarete voi quando vi oltraggeranno e perseguiteranno, e falsamente diranno di voi ogni male per causa mia. Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Matteo 5,11). Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam. La Santa Pasqua è una festività intimamente religiosa, la più importante dell’anno anche se il commercio elettronico sembra ignorarla, che assume un significato di forte impatto culturale e spirituale sulla Terra e nei Cieli. In ogni Regione d’Italia e del Mondo si conservano antiche tradizioni che perpetuano il senso religioso pasquale dell’intimo legame dell’Onnipotente con i terrestri. “Ma nishtannà ha laila ha zè miccol ha lelot?” – chiedono i bambini ebrei la notte di Pasqua: “In che cosa è diversa questa sera dalle altre sere?”. Il rabbino rav Jonathan Sacks risponde: “Uno dei più potenti messaggi dell’ebraismo è che il riscatto sia di questo mondo. Ogni volta che aiutiamo il povero a sfuggire la povertà, offriamo una casa al senzatetto, ascoltiamo coloro che non hanno voce, avviciniamo di un passo il Regno di Dio. Il modo migliore per non dimenticare questo messaggio è mangiare ogni anno il pane dell’afflizione, e le erbe amare, per non dimenticare cosa significa non essere liberi”. Renzo Gattegna, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, nel suo messaggio pasquale invia “un augurio non formale, ma autentico e sincero, di serenità, di libertà e di pace. Cari amici, estendo lo stesso augurio a tutto il popolo ebraico e a tutti coloro che si prodigano per la conquista del rispetto e della dignità di ogni essere umano. Tengo a ricordare a me stesso e a voi tutti che in questo mondo, sempre più piccolo e interconnesso, i nostri destini e le nostre sorti saranno sempre più, inevitabilmente, intrecciati e condivisi. Un affettuoso Pèsach kasher vesameach”. Pèsach (la radice ‘psch’, Pasqua, esprimerebbe l’idea del “saltellare” del gregge, ma come vedremo il “salto” e il “passare oltre”, Passover, alludono a un chiaro comportamento divino) è il giorno più “difficile” dell’anno ebraico e cristiano. Il momento in cui sorge il dovere di costruire e di conquistare la libertà, la vita, la speranza che illumina la notte dei tempi oscuri. Lo è anche per il mondo cristiano perseguitato soprattutto oggi sulla Terra, come ricorda Papa Francesco. Nella Domenica delle Palme e della Passione del Signore, il 29 Marzo 2015, Papa Bergoglio presiede in piazza San Pietro la processione, la Messa e la preghiera mariana dell’Angelus in occasione della 30.ma Giornata della Gioventù celebrata a livello diocesano sul tema: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8). Il Pontefice utilizza un pastorale in legno intarsiato. Il rito inizia alle 9:30 con la Benedizione delle Palme: si tratta dei tradizionali “parmureli” provenienti da Sanremo e Bordighera, tremila rami di palma intrecciati secondo l’antica tradizione del ponente ligure. Il “parmurelu” riservato a Papa Francesco è intrecciato con tre foglie di palma unite, a simboleggiare la Trinità. Gli olivi e i fiori che ornano piazza San Pietro provengono dalla Puglia, per richiamare alla speranza contro il cancro del batterio “Xylella fastidiosa” che rischia di distruggere il patrimonio millenario degli ulivi pugliesi. Lo spazio intorno all’obelisco egizio richiama l’accoglienza di Cristo a Gerusalemme. Il Vangelo proposto dalla liturgia racconta la Passione del Signore secondo Marco (14,1-15,47). “Al centro di questa celebrazione, che appare tanto festosa – rivela Papa Bergoglio – c’è la parola che abbiamo ascoltato nell’inno della Lettera ai Filippesi: «Umiliò sé stesso» (2,8). L’umiliazione di Gesù. Questa parola ci svela lo stile di Dio e, di conseguenza, quello che deve essere del cristiano: l’umiltà. Uno stile che non finirà mai di sorprenderci e di metterci in crisi: a un Dio umile non ci si abitua mai! Umiliarsi è prima di tutto lo stile di Dio: Dio si umilia per camminare con il Suo popolo, per sopportare le sue infedeltà. Lo si vede bene leggendo la storia dell’Esodo: che umiliazione per il Signore ascoltare tutte quelle mormorazioni, quelle lamentele! Erano rivolte contro Mosè, ma in fondo andavano contro di Lui, il loro Padre, che li aveva fatti uscire dalla condizione di schiavitù e li guidava nel cammino attraverso il deserto fino alla terra della libertà. In questa Settimana, la Settimana Santa, che ci conduce alla Pasqua, noi andremo su questa strada dell’umiliazione di Gesù. E solo così sarà “santa” anche per noi! Sentiremo il disprezzo dei capi del Suo popolo e i loro inganni per farLo cadere. Assisteremo al tradimento di Giuda, uno dei Dodici, che lo venderà per trenta denari. Vedremo il Signore arrestato e portato via come un malfattore; abbandonato dai discepoli; trascinato davanti al sinedrio, condannato a morte, percosso e oltraggiato. Sentiremo che Pietro, la “roccia” dei discepoli, lo rinnegherà per tre volte. Sentiremo le urla della folla, sobillata dai capi, che chiede libero Barabba, e Lui crocifisso. Lo vedremo schernito dai soldati, coperto con un mantello di porpora, coronato di spine. E poi, lungo la via dolorosa e sotto la croce, sentiremo gli insulti della gente e dei capi, che deridono il suo essere Re e Figlio di Dio. Questa è la via di Dio – osserva Papa Francesco – la via dell’umiltà. È la strada di Gesù, non ce n’è un’altra. E non esiste umiltà senza umiliazione. Percorrendo fino in fondo questa strada, il Figlio di Dio ha assunto la “forma di servo” (Fil 2,7). In effetti, umiltà vuol dire anche servizio, vuol dire lasciare spazio a Dio spogliandosi di sé stessi, “svuotandosi” come dice la Scrittura (v.7). Questa (svuotarsi) è l’umiliazione più grande. C’è una strada contraria a quella di Cristo: la mondanità. La mondanità – avverte il Papa – ci offre la via della vanità, dell’orgoglio, del successo. È l’altra via. Il maligno l’ha proposta anche a Gesù, durante i quaranta giorni nel deserto. Ma Gesù l’ha respinta senza esitazione. E con Lui, con la Sua grazia soltanto, col Suo aiuto, anche noi possiamo vincere questa tentazione della vanità, della mondanità, non solo nelle grandi occasioni, ma nelle comuni circostanze della vita. Ci aiuta e ci conforta in questo l’esempio di tanti uomini e donne che, nel silenzio e nel nascondimento, ogni giorno rinunciano a sé stessi per servire gli altri: un parente malato, un anziano solo, una persona disabile, un senzatetto. Pensiamo anche all’umiliazione di quanti per il loro comportamento fedele al Vangelo sono discriminati e pagano di persona. E pensiamo ai nostri fratelli e sorelle perseguitati perché cristiani, i martiri di oggi – ce ne sono tanti – non rinnegano Gesù e sopportano con dignità insulti e oltraggi. Lo seguono sulla Sua via. Possiamo parlare in verità di “un nugolo di testimoni”: i martiri di oggi (Eb 12,1). Durante questa Settimana, mettiamoci anche noi decisamente su questa strada dell’umiltà, con tanto amore per Lui, il nostro Signore e Salvatore. Sarà l’amore a guidarci e a darci forza. E dove è Lui, saremo anche noi (Gv 12,26)”. Alla preghiera dell’Angelus, il pensiero del Papa è per le vittime della sciagura aerea del volo Germanwings fatto precipitare, secondo la versione ufficiale, dal co-pilota Andreas Lubitz sulle Alpi francesi uccidendo 149 persone tra le quali vi era anche un gruppo di studenti tedeschi. Ai giovani Papa Francesco rivolge il saluto particolare alla preghiera mariana ricordando la Giornata diocesana della gioventù e dando appuntamento per la prossima GMG nel 2016 a Cracovia. Il Santo Padre ricorda che la città polacca è la patria di San Giovanni Paolo II, iniziatore delle Giornate Mondiali della Gioventù. Del tema “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”(Mt 5,8) il Papa ammette che “si intona bene con l’Anno Santo della Misericordia. Lasciatevi riempire dalla tenerezza del Padre, per diffonderla intorno a voi!”. Nella preghiera a Maria, l’invocazione “a vivere con fede la Settimana Santa” ricorda che “anche Lei era presente quando Gesù entrò in Gerusalemme acclamato dalla folla; ma il suo cuore, come quello del Figlio, era pronto al sacrificio. Impariamo da Lei, Vergine fedele, a seguire il Signore anche quando la Sua via porta alla croce”. Nel Messaggio per la XXX Giornata Mondiale Della Gioventù, il Santo Padre Francesco scrive: “Cari giovani, continuiamo il nostro pellegrinaggio spirituale verso Cracovia, dove nel Luglio 2016 si terrà la prossima edizione internazionale della Giornata Mondiale della Gioventù. Come guida del nostro cammino abbiamo scelto le Beatitudini evangeliche. L’anno scorso abbiamo riflettuto sulla Beatitudine dei poveri in spirito, inserita nel contesto più ampio del “discorso della montagna”. Abbiamo scoperto insieme il significato rivoluzionario delle Beatitudini e il forte richiamo di Gesù a lanciarci con coraggio nell’avventura della ricerca della felicità. Quest’anno rifletteremo sulla sesta Beatitudine: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). La parola beati, ossia felici, compare nove volte in questa che è la prima grande predica di Gesù (Mt 5,1-12). È come un ritornello che ci ricorda la chiamata del Signore a percorrere insieme a Lui una strada che, nonostante tutte le sfide, è la via della vera felicità. Sì, cari giovani, la ricerca della felicità è comune a tutte le persone di tutti i tempi e di tutte le età. Dio ha deposto nel cuore di ogni uomo e di ogni donna un desiderio irreprimibile di felicità, di pienezza. Non avvertite che i vostri cuori sono inquieti e in continua ricerca di un bene che possa saziare la loro sete d’infinito? I primi capitoli del Libro della Genesi ci presentano la splendida beatitudine alla quale siamo chiamati e che consiste in comunione perfetta con Dio, con gli altri, con la natura, con noi stessi. Il libero accesso a Dio, alla sua intimità e visione era presente nel progetto di Dio per l’umanità dalle sue origini e faceva sì che la luce divina permeasse di verità e trasparenza tutte le relazioni umane. In questo stato di purezza originale non esistevano “maschere”, sotterfugi, motivi per nascondersi gli uni agli altri. Tutto era limpido e chiaro”. È questa l’Umanità Perfetta in Dio. “Quando l’uomo e la donna cedono alla tentazione e rompono la relazione di fiduciosa comunione con Dio – osserva Papa Bergoglio – il peccato entra nella storia umana (Genesi 3). Le conseguenze si fanno subito notare anche nelle loro relazioni con sé stessi, l’uno con l’altro, con la natura. E sono drammatiche! La purezza delle origini è come inquinata. Da quel momento in poi l’accesso diretto alla presenza di Dio non è più possibile. Subentra la tendenza a nascondersi, l’uomo e la donna devono coprire la propria nudità. Privi della luce che proviene dalla visione del Signore, guardano la realtà che li circonda in modo distorto, miope. La “bussola” interiore che li guidava nella ricerca della felicità perde il suo punto di riferimento e i richiami del potere, del possesso e della brama del piacere a tutti i costi li portano nel baratro della tristezza e dell’angoscia”. Ecco perché esistono sulla Terra il peccato e la morte. “Nei Salmi troviamo il grido che l’umanità rivolge a Dio dal profondo dell’anima: «Chi ci farà vedere il bene, se da noi, Signore, è fuggita la luce del tuo volto?» (Sal 4,7). Il Padre, nella Sua infinita bontà, risponde a questa supplica inviando il Suo Figlio. In Gesù, Dio assume un volto umano. Con la Sua incarnazione, vita, morte e resurrezione Egli ci redime dal peccato e ci apre orizzonti nuovi, finora impensabili. E così, in Cristo, cari giovani, si trova il pieno compimento dei vostri sogni di bontà e felicità. Lui solo può soddisfare le vostre attese tante volte deluse dalle false promesse mondane. Come disse San Giovanni Paolo II: «è Lui la bellezza che tanto vi attrae; è Lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è Lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è Lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare. È Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande» (Veglia di preghiera a Tor Vergata, 19 Agosto 2000: Insegnamenti XXIII/2, [2000], 212). Adesso cerchiamo di approfondire come questa beatitudine passi attraverso la purezza del cuore. Prima di tutto dobbiamo capire il significato biblico della parola cuore. Per la cultura ebraica – rivela Papa Francesco – il cuore è il centro dei sentimenti, dei pensieri e delle intenzioni della persona umana. Se la Bibbia ci insegna che Dio non vede le apparenze, ma il cuore (1 Sam 16,7) possiamo dire anche che è a partire dal nostro cuore che possiamo vedere Dio. Questo perché il cuore riassume l’essere umano nella sua totalità e unità di corpo e anima, nella sua capacità di amare ed essere amato. Per quanto riguarda invece la definizione di “puro”, la parola greca utilizzata dall’evangelista Matteo è katharos e significa fondamentalmente pulito, limpido, libero da sostanze contaminanti. Nel Vangelo vediamo Gesù scardinare una certa concezione della purezza rituale legata all’esteriorità, che vietava ogni contatto con cose e persone (tra cui i lebbrosi e gli stranieri) considerati impuri. Ai farisei che, come tanti giudei di quel tempo, non mangiavano senza aver fatto le abluzioni e osservavano numerose tradizioni legate al lavaggio di oggetti, Gesù dice in modo categorico: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Mc 7,15.21-22). In che consiste dunque la felicità che scaturisce da un cuore puro? A partire dall’elenco dei mali che rendono l’uomo impuro, enumerati da Gesù, vediamo che la questione tocca soprattutto il campo delle nostre relazioni. Ognuno di noi deve imparare a discernere ciò che può “inquinare” il suo cuore, formarsi una coscienza retta e sensibile, capace di «discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2). Se è necessaria una sana attenzione per la custodia del creato, per la purezza dell’aria, dell’acqua e del cibo, tanto più dobbiamo custodire la purezza di ciò che abbiamo di più prezioso: i nostri cuori e le nostre relazioni. Questa “ecologia umana” ci aiuterà a respirare l’aria pura che proviene dalle cose belle, dall’amore vero, dalla santità. Una volta vi ho posto la domanda: Dov’è il vostro tesoro? Su quale tesoro riposa il vostro cuore? (cfr Intervista con alcuni giovani del Belgio, 31 Marzo 2014). Sì, i nostri cuori possono attaccarsi a veri o falsi tesori, possono trovare un riposo autentico oppure addormentarsi, diventando pigri e intorpiditi. Il bene più prezioso che possiamo avere nella vita è la nostra relazione con Dio. Ne siete convinti? Siete consapevoli del valore inestimabile che avete agli occhi di Dio? Sapete di essere amati e accolti da Lui in modo incondizionato, così come siete? Quando questa percezione viene meno, l’essere umano diventa un enigma incomprensibile, perché proprio il sapere di essere amati da Dio incondizionatamente dà senso alla nostra vita. Ricordate il colloquio di Gesù con il giovane ricco (Mc 10,17-22)? L’evangelista Marco nota che il Signore fissò lo sguardo su di lui e lo amò (v. 21), invitandolo poi a seguirlo per trovare il vero tesoro. Vi auguro, cari giovani, che questo sguardo di Cristo, pieno di amore, vi accompagni per tutta la vostra vita. Il periodo della giovinezza è quello in cui sboccia la grande ricchezza affettiva presente nei vostri cuori, il desiderio profondo di un amore vero, bello e grande. Quanta forza c’è in questa capacità di amare ed essere amati! Non permettete che questo valore prezioso sia falsato, distrutto o deturpato. Questo succede quando nelle nostre relazioni subentra la strumentalizzazione del prossimo per i propri fini egoistici, talvolta come puro oggetto di piacere. Il cuore rimane ferito e triste in seguito a queste esperienze negative. Vi prego: non abbiate paura di un amore vero, quello che ci insegna Gesù e che San Paolo delinea così: «La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine» (1 Cor 13, 4-8). Nell’invitarvi a riscoprire la bellezza della vocazione umana all’amore, vi esorto anche a ribellarvi contro la diffusa tendenza a banalizzare l’amore, soprattutto quando si cerca di ridurlo solamente all’aspetto sessuale, svincolandolo così dalle sue essenziali caratteristiche di bellezza, comunione, fedeltà e responsabilità. Cari giovani, «nella cultura del provvisorio, del relativo, molti predicano che l’importante è “godere” il momento, che non vale la pena di impegnarsi per tutta la vita, di fare scelte definitive, “per sempre”, perché non si sa cosa riserva il domani. Io, invece, vi chiedo di essere rivoluzionari, vi chiedo di andare controcorrente; sì, in questo vi chiedo di ribellarvi a questa cultura del provvisorio, che, in fondo, crede che voi non siate in grado di assumervi responsabilità, crede che voi non siate capaci di amare veramente. Io ho fiducia in voi giovani e prego per voi. Abbiate il coraggio di andare controcorrente. E abbiate il coraggio anche di essere felici» (Incontro con i volontari alla GMG di Rio, 28 Luglio 2013). Voi giovani siete dei bravi esploratori! Se vi lanciate alla scoperta del ricco insegnamento della Chiesa in questo campo, scoprirete che il cristianesimo non consiste in una serie di divieti che soffocano i nostri desideri di felicità, ma in un progetto di vita capace di affascinare i nostri cuori! Nel cuore di ogni uomo e di ogni donna risuona continuamente l’invito del Signore: «Cercate il mio volto!» (Sal 27,8). Allo stesso tempo ci dobbiamo sempre confrontare con la nostra povera condizione di peccatori. È quanto leggiamo per esempio nel Libro dei Salmi: «Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro» (Sal 24,3-4). Ma non dobbiamo avere paura né scoraggiarci: nella Bibbia e nella storia di ognuno di noi vediamo che è sempre Dio che fa il primo passo. È Lui che ci purifica affinché possiamo essere ammessi alla Sua presenza. Il profeta Isaia, quando ricevette la chiamata del Signore a parlare nel Suo nome, si spaventò e disse: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono» (Is 6,5). Eppure il Signore lo purificò, inviandogli un angelo che toccò la sua bocca e gli disse: «È scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato» (v. 7). Nel Nuovo Testamento, quando sul lago di Gennèsaret Gesù chiamò i suoi primi discepoli e compì il prodigio della pesca miracolosa, Simon Pietro cadde ai suoi piedi dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore» (Lc 5,8). La risposta non si fece aspettare: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (v. 10). E quando uno dei discepoli di Gesù gli chiese: «Signore, mostraci il Padre e ci basta», il Maestro rispose: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,8-9). L’invito del Signore a incontrarlo è rivolto perciò ad ognuno di voi, in qualsiasi luogo e situazione si trovi. Basta «prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 3). Siamo tutti peccatori, bisognosi di essere purificati dal Signore. Ma basta fare un piccolo passo verso Gesù per scoprire che Lui ci aspetta sempre con le braccia aperte, in particolare nel Sacramento della Riconciliazione, occasione privilegiata di incontro con la Misericordia divina che purifica e ricrea i nostri cuori. Sì, cari giovani, il Signore vuole incontrarci, lasciarsi “vedere” da noi. “E come?” – mi potrete domandare. Anche Santa Teresa d’Avila, nata in Spagna proprio 500 anni fa, già da piccola diceva ai suoi genitori: «Voglio vedere Dio». Poi ha scoperto la via della preghiera come «un intimo rapporto di amicizia con Colui dal quale ci sentiamo amati» (Libro della vita 8,5). Per questo vi domando: voi pregate? Sapete che potete parlare con Gesù, con il Padre, con lo Spirito Santo, come si parla con un amico? E non un amico qualsiasi, ma il vostro migliore e più fidato amico! Provate a farlo, con semplicità. Scoprirete quello che un contadino di Ars diceva al Santo Curato del suo paese: quando sono in preghiera davanti al Tabernacolo, «io lo guardo e lui mi guarda» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2715). Ancora una volta vi invito a incontrare il Signore leggendo frequentemente la Sacra Scrittura. Se non avete ancora l’abitudine, iniziate dai Vangeli. Leggete ogni giorno un brano. Lasciate che la Parola di Dio parli ai vostri cuori, illumini i vostri passi (Sal 119,105). Scoprirete che si può “vedere” Dio anche nel volto dei fratelli, specialmente quelli più dimenticati: i poveri, gli affamati, gli assetati, gli stranieri, gli ammalati, i carcerati (Mt 25,31-46). Ne avete mai fatto esperienza? Cari giovani, per entrare nella logica del Regno di Dio bisogna riconoscersi poveri con i poveri. Un cuore puro è necessariamente anche un cuore spogliato, che sa abbassarsi e condividere la propria vita con i più bisognosi. L’incontro con Dio nella preghiera, attraverso la lettura della Bibbia e nella vita fraterna vi aiuterà a conoscere meglio il Signore e voi stessi. Come accadde ai discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), la voce di Gesù farà ardere i vostri cuori e si apriranno i vostri occhi per riconoscere la Sua presenza nella vostra storia, scoprendo così il progetto d’amore che Lui ha per la vostra vita. Alcuni di voi sentono o sentiranno la chiamata del Signore al Matrimonio, a formare una famiglia. Molti oggi pensano che questa vocazione sia “fuori moda”, ma non è vero! Proprio per questo motivo, l’intera Comunità ecclesiale sta vivendo un periodo speciale di riflessione sulla vocazione e la missione della Famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo. Inoltre, vi invito a considerare la chiamata alla vita consacrata o al sacerdozio. Quanto è bello vedere giovani che abbracciano la vocazione di donarsi pienamente a Cristo e al servizio della sua Chiesa! Interrogatevi con animo puro e non abbiate paura di quello che Dio vi chiede! A partire dal vostro “sì” alla chiamata del Signore diventerete nuovi semi di speranza nella Chiesa e nella società. Non dimenticate: la volontà di Dio è la nostra felicità! «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). Cari giovani, come vedete, questa Beatitudine tocca molto da vicino la vostra esistenza ed è una garanzia della vostra felicità. Perciò vi ripeto ancora una volta: abbiate il coraggio di essere felici! La Giornata Mondiale della Gioventù di quest’anno conduce all’ultima tappa del cammino di preparazione verso il prossimo grande appuntamento mondiale dei giovani a Cracovia, nel 2016. Proprio trent’anni fa San Giovanni Paolo II istituì nella Chiesa le Giornate Mondiali della Gioventù. Questo pellegrinaggio giovanile attraverso i continenti sotto la guida del Successore di Pietro è stata veramente un’iniziativa provvidenziale e profetica. Ringraziamo insieme il Signore per i preziosi frutti che essa ha portato nella vita di tanti giovani in tutto il pianeta! Quante scoperte importanti, soprattutto quella di Cristo Via, Verità e Vita, e della Chiesa come una grande e accogliente famiglia! Quanti cambiamenti di vita, quante scelte vocazionali sono scaturiti da questi raduni! Il santo Pontefice, Patrono delle GMG, interceda per il nostro pellegrinaggio verso la sua Cracovia. E lo sguardo materno della Beata Vergine Maria, la piena di grazia, tutta bella e tutta pura, ci accompagni in questo cammino”. Inizia così la Settimana Santa A.D. 2015 e non servono troppe analisi teologiche. L’Angelus della GDG 2015 che conclude la celebrazione è tutto dedicato ai giovani. Sulle scale del sagrato di Piazza San Pietro, l’Icona mariana della Salus Populi Romani veglia sui giovani di Cracovia, la città polacca che ospiterà il prossimo raduno della GMG nel 2016. Il sorriso sul viso del Papa ritorna al termine della cerimonia, quando si intrattiene a lungo girando in auto, e spesso fermandosi per un bacio ai bambini e agli anziani, tra la folla accalcata sulle transenne e in particolare quando si concede, quasi venendone travolto, a un saluto a distanza ravvicinata con i ragazzi di Cracovia che tentano di avere con lui l’ormai irrinunciabile foto ricordo. Circa 20mila fedeli hanno partecipato a Gerusalemme alla processione della Domenica delle Palme. Il corteo festoso si è snodato dal Santuario di Betfage fino alla Chiesa di Sant’Anna, all’ingresso della Città Vecchia. Prima mera coincidenza della Settimana Santa ebraica e cristiana. Iniziata per i cristiani cattolici Domenica delle Palme 29 Marzo 2015 con la solenne celebrazione di Papa Francesco e di tutti i sacerdoti e religiosi di Cristo in Terra. Venerdì 3 Aprile 2015 (prima sera di Pèsach) gli Ebrei in Italia e nel mondo al tramonto del Sole celebrano il Seder (“ordine”), la cena pasquale, festa della durata di otto giorni fino all’11 Aprile 2015, che ricorda l’uscita degli Israeliti dalla schiavitù d’Egitto guidati da Mosè, la fine del faraone, l’attraversamento miracoloso del mar Rosso e l’inizio della lunga marcia ebraica (40 anni) verso la Terra promessa (“Le pietre del tempo, il popolo ebraico e le sue feste” di Clara ed Elia Kopciowski, edizione Ancora, 2001). Una cena consumata in fretta, prima che il pane avesse tempo di lievitare (Esodo 12, 1-20). Agli Ebrei in Egitto fu ordinato di prendere un agnello o capretto per ogni famiglia, da sacrificare alla vigilia di Pèsach (nel senso originario di sacrificio pasquale) simbolo della liberazione dall’Egitto. “In ogni generazione ciascuno deve considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto”, leggono gli Ebrei durante il Seder nell’Haggadà shel Pèsach (Narrazione della Pasqua). Il giorno prima di Pèsach è tradizione che i maschi primogeniti facciano digiuno in ricordo di quando il Signore mandò l’Angelo della morte che uccise tutti i primogeniti d’Egitto risparmiando gli Ebrei. Il precetto di raccontare ai figli dell’uscita dall’Egitto precede nell’Esodo l’uscita stessa, aprendo una porta sul futuro degli Ebrei e dei Cristiani nel mondo. “E quando i vostri discendenti vi chiederanno: che cosa significa per noi questo rito? Voi risponderete: Questo è il sacrificio pasquale in onore del Signore, il quale passò oltre le case dei figli d’Israele, quando percosse l’Egitto e preservò le nostre dimore”. Il sacrificio pasquale dell’Antica Alleanza deriva, infatti, dal verbo “passare oltre”. L’ebraico “Pasoah” si riferisce all’episodio terrificante in cui l’Angelo della morte, durante la notte della decima piaga, si fermò nelle case degli Egiziani colpendone tutti i primogeniti. Ma “Pasach”, passò oltre le case degli Ebrei sugli stipiti delle quali, in segno di riconoscimento, era stato spruzzato del sangue dell’agnello sacrificale. Verso il VI Secolo avanti Cristo, in tutto il mondo mediorientale si diffuse una nuova lingua, l’aramaico. Molti fra gli stessi Ebrei adottarono l’aramaico come lingua corrente. E in aramaico il termine “Pèsach” è tradotto con “Pascha”. L’attinenza fra le due parole, “Pascha” e Pasqua, è evidente. Il 14 di Nissan veniva offerto il sacrificio pasquale al Tempio di Gerusalemme. Solo la sera, che per la tradizione ebraica è già il 15 di Nissan, inizia la festa vera e propria con una cerimonia speciale chiamata Seder. In Israele la Pèsach dura sette giorni, fuori di Israele otto. Ciò è dovuto al fatto che anticamente, nella Diaspora, non era facile far pervenire tempestivamente l’esatta data delle ricorrenze. Quindi, per evitare errori, le si faceva durare un giorno in più. L’uso è stato mantenuto, nonostante oggi non manchi la possibilità di comunicare tempestivamente la data di inizio della festa, grazie a Internet, per sottolineare la differenza tra coloro che vivono in Israele e coloro che ne vivono fuori. Il calendario ebraico è basato sui cicli della Luna e non permette di fissare per le feste una data precisa nel calendario solare. Le Sacre Scritture specificano che il sacrificio deve essere mangiato “con azzime ed erbe amare, con la cintura ai lombi, con i sandali ai piedi, con il bastone in mano”. L’azzima è in ricordo del pane che di lì a poco non farà in tempo a lievitare e l’erba amara serve per ricordare come cosa passata (anche se per gli Ebrei di Mosè è ancora presente) l’amarezza della schiavitù. La festa ha inizio al tramonto del 14 di Nissan, che corrisponde circa al mese tra Marzo e Aprile. Pèsach, il momento in cui il popolo dei figli di Israele diviene il popolo libero, rappresenta per gli Ebrei il simbolo della libertà. Libertà è una parola difficile, anche per i Cristiani, che si presta a molteplici interpretazioni ed anche a più di un abuso. La libertà può riguardare il singolo individuo o interi popoli. Può riguardare lo spirito o il corpo. Esiste anche un concetto assai individualistico di libertà, intesa come possibilità di fare tutto quel che si vuole senza regole né limiti, indipendentemente dai diritti e dalla libertà degli altri. In che modo ognuno di noi è responsabile della propria e dell’altrui libertà? Fino a che punto e con quali modalità siamo tenuti a batterci per la nostra o per l’altrui libertà, senza lasciarci prendere da un assurdo senso di orgoglio che può trasformarci in arroganti arbitri del comportamento altrui, o da un senso di opaca rassegnazione che, rimandando a Dio ogni responsabilità sul comportamento umano, ci consente di lasciare le cose come stanno senza partecipare personalmente alla liberazione di chi è schiavo e oppresso? Schiavo o oppresso da chi o da che cosa? Esiste una libertà morale che coinvolge la nostra coscienza di essere creati “a immagine di Dio” e ci impone un totale rispetto verso noi stessi e verso gli altri. Ma esiste anche una libertà materiale, libertà dalla miseria e dal bisogno, che prevede il diritto a una vita decorosa e dignitosa quale patrimonio indispensabile perché ogni essere creato possa mantenere intatto il rispetto verso se stesso e, di conseguenza, verso il Creato e verso il prossimo. Ed è questo l’insegnamento base che gli Ebrei trovano nella Torah la cui “consegna” segue immediatamente l’uscita del popolo ebraico dall’Egitto proprio perché l’improvvisa libertà non degeneri in abuso o sopruso. Dunque, la libertà del corpo e la libertà dello spirito. La prima, se si affida unicamente all’istinto non illuminato dalla ragione e dall’insegnamento, e qui ci si riferisce proprio all’insegnamento della Torah, è paragonabile alla libertà degli animali non illuminati dal “discernimento fra il bene e il male”, e che seguono quindi soltanto il proprio istinto e i loro appetiti. Ma è purtroppo propria anche di tanti uomini, donne, stati, governi e multinazionali che hanno fatto della forza bruta, della menzogna, dell’imposizione indiscriminata della propria volontà su quella degli altri, la loro libertà potente e prepotente. La vera libertà è la seconda, quella spirituale. L’Uomo, o il Popolo, che l’abbia fatta propria, cioè resa parte integrante di sé stesso, è libero in eterno e nessuno, mai, potrà più renderlo schiavo. A Pasqua gli Ebrei bevono quattro bicchieri di vino, ascoltano il più piccolo tra i presenti che intona il “Mah Nishatanah”, discutono, si scambiano le ricette del charoset e dei biscotti, cantano filastrocche. Tra le tante ricette di Pèsach, una tra le più dolci e famose è quella delle pizzarelle con il miele,
dolcetti preparati con matzot, uova, cacao, zucchero, pinoli e uvetta, poi fritte in olio bollente ed infine cosparse di miele. Un dolce semplice ma molto buono la cui ricetta è tipica della cucina ebraico-romana di Pèsach. Gli Ebrei pensano a chi festeggia allegramente, a Ester e Mordechai che digiunano, ai cinque rabbini di Benè Berak che discutono tutta la notte e forse tramano la rivolta contro gli antichi Romani, a tutti gli Ebrei che molte volte nel corso dei secoli avrebbero festeggiato la libertà chiusi nei ghetti, nascosti o in fuga, agli Ebrei dell’Olocausto e della rivolta nel ghetto di Varsavia. Pensate, quelli di Pèsach furono i riti di Gesù, di Maria Santissima, di Sant’Anna, San Gioacchino e San Giuseppe. Ancora oggi facciamo fatica a immaginare la Sacra Famiglia di Nazareth che recita il Rituale della Rimembranza, festeggiando la Pasqua ebraica. Se siamo Cristiani siamo anche Ebrei, in quanto condividiamo il retaggio dei figli d’Israele, il Popolo dell’Altissimo che rispetta la Sua Alleanza, l’Antica e la Nuova. Non possiamo negare la Verità. Per i Cristiani la Pasqua del Signore Gesù Cristo non è la festa del pacifismo, della commemorazione passiva, del buonismo, della resa incondizionata alla cultura atea dominante del relativismo etico, dell’ipocrisia e delle forze maligne che agiscono nella Storia. Ce lo ricorda Papa Francesco nell’Omelia della Domenica delle Palme del 24 Marzo 2013. “Gesù entra in Gerusalemme. La folla dei discepoli lo accompagna in festa – ricorda Papa Bergoglio – i mantelli sono stesi davanti a Lui, si parla di prodigi che ha compiuto, un grido di lode si leva: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli” (Lc 19,38). Folla, festa, lode, benedizione, pace: è un clima di gioia quello che si respira. Gesù ha risvegliato nel cuore tante speranze soprattutto tra la gente umile, semplice, povera, dimenticata, quella che non conta agli occhi del mondo. Lui ha saputo comprendere le miserie umane, ha mostrato il volto di misericordia di Dio e si è chinato per guarire il corpo e l’anima. Questo è Gesù. Questo è il Suo cuore che guarda tutti noi, che guarda le nostre malattie, i nostri peccati. È grande l’amore di Gesù. E così entra in Gerusalemme con questo amore, e guarda tutti noi. È una scena bella: piena di luce – la luce dell’amore di Gesù, quello del Suo cuore – di gioia, di festa. All’inizio della Messa l’abbiamo ripetuta anche noi. Abbiamo agitato le nostre palme. Anche noi abbiamo accolto Gesù; anche noi abbiamo espresso la gioia di accompagnarlo, di saperlo vicino, presente in noi e in mezzo a noi, come un amico, come un fratello, anche come re, cioè come faro luminoso della nostra vita. Gesù è Dio, ma si è abbassato a camminare con noi. È il nostro amico, il nostro fratello. Qui ci illumina nel cammino. E così oggi lo abbiamo accolto. E questa è la prima parola che vorrei dirvi: gioia! Non siate mai uomini e donne tristi: un cristiano non può mai esserlo! Non lasciatevi prendere mai dallo scoraggiamento! La nostra non è una gioia che nasce dal possedere tante cose, ma nasce dall’aver incontrato una Persona: Gesù, che è in mezzo a noi; nasce dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche nei momenti difficili, anche quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili, e ce ne sono tanti! E in questo momento viene il nemico, viene il diavolo, mascherato da angelo tante volte, e insidiosamente ci dice la sua parola. Non ascoltatelo! Seguiamo Gesù! Noi accompagniamo, seguiamo Gesù, ma soprattutto sappiamo che Lui ci accompagna e ci carica sulle sue spalle: qui sta la nostra gioia, la speranza che dobbiamo portare in questo nostro mondo. E, per favore, non lasciatevi rubare la speranza! Non lasciate rubare la speranza! Quella che ci dà Gesù. Seconda parola. Perché Gesù entra in Gerusalemme, o forse meglio: come entra Gesù in Gerusalemme? La folla lo acclama come Re. E Lui non si oppone, non la fa tacere (Lc 19,39-40). Ma che tipo di Re è Gesù? Guardiamolo: cavalca un puledro, non ha una corte che lo segue, non è circondato da un esercito simbolo di forza. Chi lo accoglie è gente umile, semplice, che ha il senso di guardare in Gesù qualcosa di più; ha quel senso della fede, che dice: Questo è il Salvatore. Gesù non entra nella Città Santa per ricevere gli onori riservati ai re terreni, a chi ha potere, a chi domina; entra per essere flagellato, insultato e oltraggiato, come preannuncia Isaia nella Prima Lettura (Is 50,6); entra per ricevere una corona di spine, un bastone, un mantello di porpora, la Sua regalità sarà oggetto di derisione; entra per salire il Calvario carico di un legno. E allora ecco la seconda parola: Croce. Gesù entra a Gerusalemme per morire sulla Croce. Ed è proprio qui che splende il suo essere Re secondo Dio: il Suo trono regale è il legno della Croce! Penso a quello che Benedetto XVI diceva ai Cardinali: Voi siete principi, ma di un Re crocifisso. Quello è il trono di Gesù. Gesù prende su di sé… Perché la Croce? Perché Gesù prende su di sé il male, la sporcizia, il peccato del mondo, anche il nostro peccato, di tutti noi, e lo lava, lo lava con il Suo sangue, con la misericordia, con l’amore di Dio. Guardiamoci intorno: quante ferite il male infligge all’umanità! Guerre, violenze, conflitti economici che colpiscono chi è più debole, sete di denaro, che poi nessuno può portare con sé, deve lasciarlo. Mia nonna diceva a noi bambini: il sudario non ha tasche. Amore al denaro, potere, corruzione, divisioni, crimini contro la vita umana e contro il Creato! E anche – ciascuno di noi lo sa e lo conosce – i nostri peccati personali: le mancanze di amore e di rispetto verso Dio, verso il prossimo e verso l’intera Creazione. E Gesù sulla Croce sente tutto il peso del male e con la forza dell’amore di Dio lo vince, lo sconfigge nella sua Resurrezione. Questo è il bene che Gesù fa a tutti noi sul trono della Croce. La Croce di Cristo abbracciata con amore mai porta alla tristezza, ma alla gioia, alla gioia di essere salvati e di fare un pochettino quello che ha fatto Lui quel giorno della Sua morte. Oggi in questa Piazza ci sono tanti giovani: da 28 anni la Domenica delle Palme è la Giornata della Gioventù! Ecco la terza parola: giovani! Cari giovani, vi ho visto nella processione, quando entravate; vi immagino a fare festa intorno a Gesù, agitando i rami d’ulivo; vi immagino mentre gridate il Suo nome ed esprimete la vostra gioia di essere con Lui! Voi avete una parte importante nella festa della fede! Voi ci portate la gioia della fede e ci dite che dobbiamo vivere la fede con un cuore giovane, sempre: un cuore giovane, anche a settanta, ottant’anni! Cuore giovane! Con Cristo il cuore non invecchia mai! Però tutti noi lo sappiamo e voi lo sapete bene che il Re che seguiamo e che ci accompagna è molto speciale: è un Re che ama fino alla Croce e che ci insegna a servire, ad amare. E voi non avete vergogna della sua Croce! Anzi, la abbracciate, perché avete capito che è nel dono di sé, nell’uscire da se stessi, che si ha la vera gioia e che con l’amore di Dio Lui ha vinto il male. Voi portate la Croce pellegrina attraverso tutti i continenti, per le strade del mondo! La portate rispondendo all’invito di Gesù: “Andate e fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19) che è il tema della Giornata della Gioventù di quest’anno. La portate per dire a tutti che sulla croce Gesù ha abbattuto il muro dell’inimicizia, che separa gli uomini e i popoli, e ha portato la riconciliazione e la pace. Cari amici, anch’io mi metto in cammino con voi, da oggi, sulle orme del beato Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Ormai siamo vicini alla prossima tappa di questo grande pellegrinaggio della Croce. Guardo con gioia al prossimo Luglio, a Rio de Janeiro! Vi do appuntamento in quella grande città del Brasile! Preparatevi bene, soprattutto spiritualmente nelle vostre comunità, perché quell’Incontro sia un segno di fede per il mondo intero. I giovani devono dire al mondo: è buono seguire Gesù; è buono andare con Gesù; è buono il messaggio di Gesù; è buono uscire da se stessi, alle periferie del mondo e dell’esistenza per portare Gesù! Tre parole: gioia, croce, giovani. Chiediamo l’intercessione della Vergine Maria. Lei ci insegna la gioia dell’incontro con Cristo, l’amore con cui lo dobbiamo guardare sotto la croce, l’entusiasmo del cuore giovane con cui lo dobbiamo seguire in questa Settimana Santa e in tutta la nostra vita. Così sia”. Vale sia per gli Ebrei sia per i Cristiani che un giorno Dio riunirà in un solo Popolo sulla Terra e nei Cieli. La schiavitù del peccato è davvero vinta? Le catene del maligno sono state spezzate? Siamo liberi o schiavi? Hanno tentato di sradicarci dal nostro presente, dalla nostra identità oggi incerta. Così è d’obbligo digiunare. Hanno provato a sterminarci, ci siamo salvati, mangiamo insieme la Pasqua del Signore, anche se in feste diverse. Mangiare e digiunare costituiscono molto più di una prassi comunitaria. La Pace è un dono di Dio, non degli uomini. È bene ricordarlo in questa Pasqua AD 2015 (gli Ortodossi la celebrano quest’anno Domenica 12 Aprile) che è la festa della Liberazione dalla schiavitù del peccato, la festa del Passaggio dalla morte alla vita eterna. Per i Cristiani è soprattutto la festa della Resurrezione della carne, a cominciare dalla Primizia che è Gesù Cristo, Figlio del Dio Vivente, il Messia, il Risorto, il Signore dell’Universo, vero Dio e vero Uomo, fonte della Vita nuova e vera, Colui che ha donato la Sua vita in riscatto dell’Umanità intera, facendo nuove tutte le cose. Questa è la nostra Fede che, come ci ricorda San Paolo Apostolo, altrimenti sarebbe vana! La Vita Eterna che scaturisce dal Costato di Cristo è una verità di Fede, forse dimenticata, ma viva come rivela la magnifica storia di San Giovanni Paolo II, Karol Wojtyla il Grande. Siamo davvero in preparazione febbrile della Santa Pasqua, momento fondante della nostra Storia e della nostra nuova Umanità assunta in Cristo Risorto venuto sulla Terra per fare nuove tutte le cose? Attenzione alle modalità con cui viviamo la Pasqua del Signore. In questa turbolenta Settimana Santa il rischio è di affogare in un bagno mediatico autoreferenziale, in un manifesto di sani principi che si occupi più dei nuovi presunti diritti “animali”, della difesa della cultura consumistica occidentale nell’ex “fortezza Europa”, ovviamente della propria vita religiosa, magari in una visione di scambio e incontro con le nuove realtà della nostra società globalizzata, sacrificando il significato autentico della Pasqua del Signore in ciascuno di noi. Certo, i bisogni dei più deboli sono importantissimi. Dobbiamo preoccuparci dei più poveri, degli ultimi, ma è essenziale la conservazione e la trasmissione del Messaggio Pasquale (che non è un uovo, una colomba, un agnellino e un coniglietto di cioccolato!) attraverso i nostri Riti per formare la coscienza e la sensibilità religiosa laicale verso questi problemi. Il Male esiste sulla Terra, invisibile e visibile, come ricorda Papa Bergoglio. “Non dobbiamo credere al Maligno che dice che non possiamo fare nulla contro la violenza, l’ingiustizia, il peccato” – scrive Papa Francesco su Twitter. Il Nemico, che il Romano Pontefice e Vescovo di Roma, ricorda per l’ennesima volta dall’inizio del suo Pontificato (13 Marzo 2013), agisce nella Storia con il suo corollario di povertà, miserie, malattie, ignoranza, ingiustizie, menzogne, fame, assurdità, delitti e guerre. Per liberarsi del diavolo è necessaria la sollecitudine e la minuziosa attenzione di tutti. La battaglia per la Vita prosegue. Guai a disperare. Il mistero più grande della venuta e del sacrificio del Figlio di Dio nella Storia per fare nuove tutte le cose, non è stato ancora compreso da tutti. Sembra ancora oggi un fatto squisitamente religioso clericale! La cultura e l’economia ignorano Cristo Dio. Eppure il Concilio Vaticano II ha chiarito che la Chiesa siamo noi tutti, laici e religiosi, il Popolo di Dio. In Italia e in Europa, quale deve essere, allora, la scala di priorità per un Ebreo e un Cristiano oggi, nel rispetto delle proprie identità? I giovani sono consapevoli di queste problematiche o fanno confusione con le uova, gli agnellini, i conigli, le colombe di cioccolato e le pizze pasquali? Domande che attendono una risposta, soprattutto dal territorio, “l’anello debole di tutta la cordata necessaria per salire da Gerico a Gerusalemme fino a Dio – ricorda Benedetto XVI, il Papa emerito – per vincere la forza di gravità del peccato, per entrare nel campo gravitazionale del Paradiso e lasciarci attrarre da Dio e dai Santi”. E si comincia dalla nostra Storia e Memoria comuni, di Ebrei e Cristiani perché Gesù sulla Terra era Ebreo e per più di trent’anni della Sua vita terrena ha celebrato la Pasqua ebraica con i Suoi cari, nel Suo e Nostro Popolo. Inizia, dunque, la Pasqua ebraica. In tutte le case dei nostri “fratelli maggiori”, dopo il vino, l’haroset, le erbe amare, i salmi e le storie, alla fine della sera, gli Ebrei dicono le tre parole decisive che danno al Seder una presa sull’attualità che non è mai cessata da quando i saggi hanno fissato l’Haggadà. Gli Ebrei dicono, come tutti gli anni, “Leshanà habbà beJerushalaim” che significa: l’anno prossimo a Gerusalemme; “Ha shatà hakhà ‘avdè leshanà ha bahà be ar’aha de Israel benè chorin”, cioè: “Quest’anno qui schiavi l’anno prossimo nella terra di Israele figli della libertà”. Per secoli questa è stata solo una promessa spirituale, una speranza che non moriva per il popolo ebraico. Una preghiera. Poi, gradualmente, da 155 anni, la clausola è diventata concreta, il senso è cambiato in un invito a salire davvero in Israele. Una proposta, una richiesta. Poi, nel Giugno di 68 anni fa, a Gerusalemme gli Ebrei si sono insediati davvero nella loro Patria, nella loro Capitale. Dal senso della frase non è sparito l’invito, ma si è aggiunta la gioia di una realizzazione storico-giuridica. Era diventata un segno di festa. Magari fra mille problemi, Gerusalemme era comunque tornata al Popolo ebraico, dopo centinaia, migliaia di instancabili ripetizioni di quella formula. Eppure, Israele oggi è in pericolo, sia come Stato sia come Popolo. Lo sarebbe comunque, anche se Gerusalemme fosse divisa in due Capitali, magari separate da un nuovo muro! Perché non è affatto detto che l’anno prossimo gli Ebrei saranno ancora a Jerushalaim. Se le cose andassero come sembrano volere non solo i Palestinesi e il mondo arabo-islamico, ma anche l’Europa, l’Italia e l’America, nel 2016 di Gerusalemme potrebbe restare solo la periferia occidentale! Sempre che “l’Atomica” turco-iraniana non ponga prima fine a tutti ed a tutto su questa povera Terra. Il 14 del mese di Nissan è caratterizzato dalla festa di Pèsach, dai preparativi alla festa di Pasqua e da un’atmosfera di gioia. Anche nelle famiglie cristiane fervono i preparativi, a cominciare dalle tradizionali pulizie primaverili prima del Triduo Pasquale cristiano cattolico della Settimana Santa. Pèsach dell’anno ebraico 5775 (3-11 Aprile 2015) e la Santa Pasqua del Signore (5 Aprile 2015) sono feste completamente diverse ma intimamente connesse alle realtà celesti. Un giorno, Ebrei (Popolo eletto dell’Antica Alleanza) e Cristiani (Popolo redento dalla grazia di Cristo nella Nuova Alleanza) come annuncia l’Apostolo San Paolo nella Lettera ai Romani, saranno una Famiglia unita in Dio già sulla Terra. Un fatto storico, dunque, preannunciato quasi duemila anni fa. E sarà davvero un giorno felicissimo e glorioso. La nostra comune radice religiosa in Dio è fissata intimamente alle realtà ultraterrestri che i saggi Autori della Sacra Bibbia e della Tradizione orale, ispirati da Dio, nel corso dei millenni hanno impresso nella pergamena e dei cuori. Si collegano in questo modo due elementi fondamentali della nostra fede: la Creazione del mondo e il costante Intervento divino liberatore nella Storia dell’Umanità. Per i Cristiani è la Persona di Cristo Risorto che ha vinto la morte, distruggendo i nostri peccati. Per gli Ebrei rimane l’obbligo di non rinunciare a fare la loro parte che a Pèsach è quella di mantenere e trasmettere la Memoria di eventi fondamentali che hanno segnato la loro condizione più di tre millenni fa. Lo fanno osservando scrupolosamente antiche regole che riguardano la casa, gli alimenti speciali e il racconto ai più giovani, tra la Memoria della redenzione passata e l’Attesa di quella futura. Allora, Pesach kasher wesameach a tutti. Durante tutto il mese di Nissan, la Legge prescrive che non si recita il Tachannun e Zidqatekhà nella preghiera pomeridiana di Shabbat. Inoltre non vengono decretati digiuni pubblici ed in generale è vietato digiunare, ad esclusione del Ta’anit Chalom, il digiuno che viene osservato qualora si sia fatto un sogno sconvolgente. Durante Nissan non si fa l’hesped (orazione funebre) se non per commemorare personalità di grande rilievo. Si va al cimitero solo per sepolture, ricorrenze (settimo, mese, fine anno) ed anniversari. L’uso prevalente è di non mangiare pane azzimo fino all’inizio di Pèsach per apprezzare la “novità” della matzà la sera del Seder. Secondo la Toràh il nome di Pèsach è legato ad un’espressione che compare in occasione dell’ultima piaga, l’uccisione dei primogeniti egiziani. La Torà (Shemot 12:13) dice: “e il sangue sarà come segno sulle case in cui vi trovate, e passerò (ufasachtì) sopra la porta…”. Rashì porta due possibili spiegazioni del verbo ufasachtì: può significare “avrò misericordia” oppure “passerò oltre, salterò”. Passando sopra le case, Dio sarebbe passato da una casa egiziana all’altra, tralasciando quelle degli Ebrei. Naturalmente questa espressione non può essere intesa in senso letterale, poiché Dio è in ogni luogo contemporaneamente, ma va intesa dal punto di vista degli effetti della piaga che di fatto colpì solamente gli egiziani. Questa immagine del “salto” non può però essere intesa nel solo senso stretto materiale, secondo i rabbini. È come se, in senso spirituale, lo stesso Signore abbia fatto un “salto”, andando oltre al Suo consueto modo di procedere nei confronti dell’Umanità, con un atto di salvezza verso coloro che accettavano di seguirLo. Il midrash dice che il Signore chiede agli uomini di aprire entro di sé un’apertura grande quanto la punta di uno spillo per la teshuvàh, ed Egli farà il resto. L’Uomo è comunque tenuto a fare il primo passo, affinché vi sia l’intervento divino. I maestri della Chassidut spiegano che l’apertura umana deve essere completa, ed attraversare l’Uomo, per così dire, da parte a parte. In Egitto il Popolo ebraico fece solamente l’inizio del lavoro, e nonostante ciò ottenne la salvezza, grazie al “salto” divino. Ma il “salto” lo devono fare tutti gli esseri umani. Che tipo di Ebrei erano quelli che furono liberati dall’Egitto? Erano schiavi del tutto assimilati o avevano una forte identità ebraica? Dal racconto biblico si evidenzia solo qualche indizio, il resto è legato a quanto racconta la tradizione rabbinica che, su questo argomento, sembra divisa. Secondo una linea interpretativa gli Ebrei avevano mantenuto la loro identità rimanendo fedeli ad alcuni modelli culturali essenziali, come la lingua e i nomi e non perdendo la speranza nella liberazione. Secondo un’altra linea erano completamente sprofondati nelle “49 porte dell’impurità” egiziana e mancava un soffio alla loro completa perdita. Fu solo l’intervento divino a salvare la situazione facendo uscire (“goi mikerev goi”) un popolo da dentro a un popolo, senza alcuna differenza tra i due. È evidente che le domande e le risposte non riguardano solo gli antenati ma nascondono per gli Ebrei un problema più grande e sempre attuale: che tipo di Ebreo bisogna essere per sopravvivere e qual è il ruolo degli Uomini rispetto a quello divino riguardo ai processi di liberazione? Se non facciamo niente per noi che speranze abbiamo di essere liberati? Che bello sarebbe poter trascorrere insieme la Pasqua, Ebrei e Cristiani insieme a Roma, sul territorio, in Israele, in Palestina e nei paesi mussulmani! Dio ci chiede il primo passo. Poi, Lui farà il resto. Pasqua ebraica e Pasqua cristiana: chi stabilisce la data, la festa e la sua libertà? Per il calcolo della data mobile della Pasqua occorre sapere che tutto fu deciso nel 325 dopo Cristo, quando il Concilio di Nicea stabilì che la solennità della Pasqua cristiana sarebbe stata celebrata “nella Domenica seguente il primo plenilunio dopo l’Equinozio di Primavera”. L’Equinozio di Primavera è intorno al 21 Marzo e la data di Pasqua è quindi sempre compresa tra il 22 Marzo e il 25 Aprile inclusi, poiché il ciclo lunare è di 29 giorni. Il metodo per calcolare il giorno di Pasqua richiede conoscenza e pazienza. Esistono su Internet piccoli programmi in grado di elaborare velocemente la data. La festa di Pèsach ha sempre destato, per vari motivi, l’opposizione di molti governi, sotto cui si sono trovati gli Ebrei. Per il periodo adrianeo leggiamo la Mechilta derabbì Ishmael. Rabbi Natan dice: “Per quelli che amano i Miei Comandamenti…si riferisce agli Ebrei che vivono in Terra d’Israele e che rischiano la loro vita per i Comandamenti… Perchè mai vai ad essere crocifisso? – Perchè ho mangiato il pane azzimo”. In questo caso il divieto delle matzot fa parte di una serie di divieti di osservanza delle mitzvot da parte dell’autorità Romana. La problematica cambia nell’Impero romano cristiano. Se per gli Ebrei la festa di Pasqua ricorre ogni anno il 14-15 del mese di Nissan per celebrare l’uscita dall’Egitto, la Pasqua cristiana commemora invece la Passione, la Morte e la Resurrezione di Gesù Cristo, che secondo la tradizione cristiana ebbe luogo proprio durante la Pasqua ebraica di 1985 anni fa, secondo il calcolo più corretto (cf. libro “La Passione”, di Andrea Tornielli) ossia nella prima settimana di Aprile dell’Anno Domini 30. E non nel 33. Per questo motivo la Chiesa delle origini trovava perfettamente naturale fissare la data della Pasqua secondo quella ebraica. In tale epoca gli Ebrei non avevano però un calendario lunare fisso, come oggi. Ogni volta si fissava l’inizio del mese a seconda dell’apparizione della Luna Nuova. I testimoni e alcuni padri della Chiesa trovarono ben presto insopportabile che si dovesse aspettare che i Rabbini avessero fissato la data del nuovo mese per poter essi stessi fissare la data della loro Pasqua. Quando la festa fu introdotta a Roma la celebrarono la Domenica dopo la Pasqua ebraica, come ad Alessandria. Dopo numerose discussioni fra la Chiesa d’Occidente e quella d’Oriente, la questione fu portata al Concilio di Nicea che minacciò punizioni per quei cristiani che celebrassero la loro Pasqua nello stesso tempo della Pasqua ebraica. Il problema fu affrontato in altri Concili della Chiesa ma era evidentemente di difficile soluzione e sembra essere ancora attuale al tempo di Giustiniano tanto che “l’onnipotente Imperatore” volle porvi fine una volta per tutte. Nell’Anno Domini 543 egli decretò, stando almeno a Procopio, che gli Ebrei non potessero celebrare la loro Pasqua altro che dopo la Pasqua cristiana, per evitare così che i Cristiani partecipassero al Seder degli Ebrei. “E non permetteva neppure di fare la loro offerta a Dio né il compimento di ogni cerimonia, secondo i loro propri costumi. E molti di loro sono stati perseguitati dalle autorità per aver mangiato carne d’agnello, con lorde ammende, sotto il pretesto di violazione delle leggi dello Stato. Abbiamo qui senza dubbio una grave offesa alla libertà delle feste ebraiche: oramai si tratta di un’osservanza tollerata, sottoposta sempre all’arbitrio di questo o quell’Imperatore”. Tuttavia, “l’Ultima Cena di Gesù non fu la Pasqua ebraica”, scrive Benedetto XVI nel suo libro “Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Resurrezione”. Il Papa emerito spiega che “Giovanni bada con premura a non presentare l’Ultima Cena come cena pasquale. Al contrario: le autorità giudaiche che portano Gesù davanti al tribunale di Pilato evitano di entrare nel pretorio «per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua» (18,28). La Pasqua comincia quindi solo alla sera; durante il processo si ha la cena pasquale ancora davanti; processo e crocifissione avvengono nel giorno prima della Pasqua, nella «Parascève», non nella festa stessa. La Pasqua in quell’anno si estende dunque dalla sera del Venerdì fino alla sera del Sabato e non dalla sera del Giovedì fino alla sera del Venerdì. Per il resto, lo svolgimento degli eventi rimane lo stesso. Giovedì sera l’Ultima Cena di Gesù con i discepoli, che però non è una cena pasquale; Venerdì (vigilia della festa e non la festa stessa): il processo e l’esecuzione capitale; Sabato: il riposo del sepolcro; Domenica: la Resurrezione. Con questa cronologia, Gesù muore nel momento in cui nel Tempio vengono immolati gli agnelli pasquali. Egli muore come l’Agnello vero che negli agnelli era solo preannunciato. Questa coincidenza teologicamente importante, che Gesù muoia contemporaneamente con l’immolazione degli agnelli pasquali, ha indotto molti studiosi a liquidare la versione giovannea come cronologia teologica. Giovanni avrebbe cambiato la cronologia per creare questa connessione teologica che, tuttavia, nel Vangelo non viene manifestata esplicitamente. Oggi, però, si vede sempre più chiaramente che la cronologia giovannea è storicamente più probabile di quella sinottica. Poiché – come s’è detto – processo ed esecuzione capitale nel giorno di festa sembrano poco immaginabili. D’altra parte, l’Ultima Cena di Gesù appare così strettamente legata alla tradizione della Pasqua che la negazione del suo carattere pasquale risulta problematica. Per questo già da sempre sono stati fatti dei tentativi di conciliare le due cronologie tra loro. Il tentativo più importante – e in molti particolari affascinante – di giungere ad una compatibilità tra le due tradizioni proviene dalla studiosa francese Annie Jaubert, che fin dal 1953 ha sviluppato la sua tesi in una serie di pubblicazioni. Non dobbiamo qui entrare nei dettagli di tale proposta; limitiamoci all’essenziale. In questo modo la tradizione sinottica e quella giovannea appaiono ugualmente giuste sulla base della differenza tra due calendari diversi. La studiosa francese fa notare che le cronologie tramandate (nei sinottici e in Giovanni) devono mettere insieme una serie di avvenimenti nello spazio stretto di poche ore: l’interrogatorio davanti al sinedrio, il trasferimento davanti a Pilato, il sogno della moglie di Pilato, l’invio ad Erode, il ritorno da Pilato, la flagellazione, la condanna a morte, la via crucis e la crocifissione. Collocare tutto questo nell’ambito di poche ore sembra – secondo Jaubert – quasi impossibile. Rispetto a ciò la sua soluzione offre uno spazio temporale che va dalla notte tra Martedì e Mercoledì fino al mattino del Venerdì. In quel contesto la studiosa mostra che in Marco per i giorni «Domenica delle palme», Lunedì e Martedì c’è una precisa sequenza degli avvenimenti, ma che poi egli salta direttamente alla cena pasquale. Secondo la datazione tramandata resterebbero quindi due giorni su cui non viene riferito nulla. Infine Jaubert ricorda che in questo modo il progetto delle autorità giudaiche, di uccidere Gesù puntualmente ancora prima della festa, avrebbe potuto funzionare. Pilato, tuttavia, con la sua titubanza avrebbe poi rimandato la crocifissione fino al Venerdì. Contro il cambio della data dell’Ultima Cena dal Giovedì al Martedì parla, però, l’antica tradizione del Giovedì, che comunque incontriamo chiaramente già nel II Secolo. Ma a ciò la signora Jaubert obietta citando il secondo testo su cui si basa la sua tesi: si tratta della cosiddetta Didascalia degli Apostoli, uno scritto dell’inizio del III Secolo, che fissa la data della cena di Gesù al Martedì. La studiosa cerca di dimostrare che quel libro avrebbe accolto una vecchia tradizione, le cui tracce sarebbero ritrovabili anche in altri testi. A questo bisogna, però, rispondere che le tracce della tradizione, manifestate in questo modo, sono troppo deboli per poter convincere. L’altra difficoltà consiste nel fatto che l’uso da parte di Gesù di un calendario diffuso principalmente in Qumran è poco verosimile. Per le grandi feste, Gesù si recava al Tempio. Anche se ne ha predetto la fine e l’ha confermata con un drammatico atto simbolico, Egli ha seguito il calendario giudaico delle festività, come dimostra soprattutto il Vangelo di Giovanni. Certo, si potrà consentire con la studiosa francese sul fatto che il Calendario dei Giubilei non era strettamente limitato a Qumran e agli Esseni. Ma ciò non basta per poterlo far valere per la Pasqua di Gesù. Così si spiega perché la tesi di Annie Jaubert, a prima vista affascinante, dalla maggioranza degli esegeti venga rifiutata. Io l’ho illustrata in modo così particolareggiato, perché essa lascia immaginare qualcosa della molteplicità e complessità del mondo giudaico al tempo di Gesù – un mondo che noi, nonostante tutto l’ampliamento delle nostre conoscenze delle fonti, possiamo ricostruire solo in modo insufficiente. Non disconoscerei, quindi, a questa tesi ogni probabilità, benché in considerazione dei suoi problemi non sia possibile semplicemente accoglierla”. Che cosa dobbiamo dunque dire? “La valutazione più accurata di tutte le soluzioni finora escogitate l’ho trovata nel libro su Gesù di John P. Meier, che alla fine del suo primo volume ha esposto un ampio studio sulla cronologia della vita di Gesù. Egli giunge al risultato che bisogna scegliere tra la cronologia sinottica e quella giovannea e dimostra, in base all’insieme delle fonti, che la decisione deve essere in favore di Giovanni. Giovanni ha ragione: al momento del processo di Gesù davanti a Pilato, le autorità giudaiche non avevano ancora mangiato la Pasqua e per questo dovevano mantenersi ancora cultualmente pure. Egli ha ragione: la crocifissione non è avvenuta nel giorno della festa, ma nella sua vigilia. Ciò significa che Gesù è morto nell’ora in cui nel Tempio venivano immolati gli agnelli pasquali. Che i cristiani in ciò vedessero in seguito più di un puro caso, che riconoscessero Gesù come il vero Agnello, che proprio così trovassero il rito degli agnelli portato al suo vero significato – tutto ciò è poi solo normale”. Ma perché allora i sinottici hanno parlato di una cena pasquale? Su che cosa si basa questa linea della tradizione? “Una risposta veramente convincente a questa domanda non la può dare neppure Meier. Ne fa tuttavia il tentativo – come molti altri esegeti – per mezzo della critica redazionale e letteraria. Cerca di dimostrare che i brani di Marco, 14, 1a e 14, 12-16 (gli unici passi in cui presso Marco si

arla della Pasqua) sarebbero stati inseriti successivamente. Nel racconto vero e proprio dell’Ultima Cena non si menzionerebbe la Pasqua. Questa operazione – per quanto molti nomi importanti la sostengano – è artificiale. Rimane però giusta l’indicazione di Meier che cioè, nella narrazione della cena stessa presso i sinottici, il rituale pasquale appare tanto poco quanto presso Giovanni. Così, pur con qualche riserva, si potrà aderire all’affermazione: «L’intera tradizione giovannea (…) concorda pienamente con quella originaria dei sinottici per quanto riguarda il carattere della cena come non appartenente alla Pasqua» (A Marginal Jew, i, p. 398)”. Ma allora, che cosa è stata veramente l’Ultima Cena di Gesù? E come si è giunti alla concezione sicuramente molto antica del suo carattere pasquale? “La risposta di Meier è sorprendentemente semplice e sotto molti aspetti convincente. Gesù era consapevole della Sua morte imminente. Egli sapeva che non avrebbe più potuto mangiare la Pasqua. In questa chiara consapevolezza invitò i suoi ad un’Ultima Cena di carattere molto particolare, una Cena che non apparteneva a nessun determinato rito giudaico, ma era il Suo congedo, in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava se stesso come il vero Agnello, istituendo così la sua Pasqua. In tutti i Vangeli sinottici fanno parte di questa Cena la profezia di Gesù sulla Sua morte e quella sulla Sua resurrezione. In Luca essa ha una forma particolarmente solenne e misteriosa: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio» (22,15s). La parola rimane equivoca: può significare che Gesù, per un’ultima volta, mangia l’abituale Pasqua con i suoi. Ma può anche significare che non la mangia più, ma s’incammina verso la Pasqua nuova. Una cosa è evidente nell’intera tradizione: l’essenziale di questa Cena di congedo non è stata l’antica Pasqua, ma la novità che Gesù ha realizzato in questo contesto. Anche se questo convivio di Gesù con i Dodici non è stata una cena pasquale secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la connessione interiore dell’insieme con la morte e resurrezione di Gesù: era la Pasqua di Gesù. E in questo senso Egli ha celebrato la Pasqua e non l’ha celebrata: i riti antichi non potevano essere praticati; quando venne il loro momento, Gesù era già morto. Ma Egli aveva donato sé stesso e così aveva celebrato con essi veramente la Pasqua. In questo modo l’antico non era stato negato, ma solo così portato al suo senso pieno. La prima testimonianza di questa visione unificante del nuovo e dell’antico, che realizza la nuova interpretazione della cena di Gesù in rapporto alla Pasqua nel contesto della Sua morte e resurrezione, si trova in Paolo 1 Corinzi 5,7: «Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!» (cfr. Meier A Marginal Jew, p. 429 ss). Come in Marco 14,1 si susseguono qui il primo giorno degli Azzimi e la Pasqua, ma il senso rituale di allora è trasformato in un significato cristologico ed esistenziale. Gli «azzimi» devono ora essere costituiti dai Cristiani stessi, liberati dal lievito del peccato. L’Agnello immolato, però, è Cristo. In ciò Paolo concorda perfettamente con la descrizione giovannea degli avvenimenti. Per lui, morte e resurrezione di Cristo sono diventate così la Pasqua che perdura. In base a ciò si può capire come l’Ultima Cena di Gesù, che non era solo un preannuncio, ma nei Doni eucaristici comprendeva anche un’anticipazione di croce e resurrezione, ben presto venisse considerata come Pasqua – come la sua Pasqua. E lo era veramente”. A Pasqua non bisogna dimenticarsi dei poveri e di coloro che abbiamo trattato male, pena l’inutilità dei Riti e di tutto il resto. Bisogna riconciliarsi con tutti, l’un l’altro, senza ipocrisie. Siamo talmente presi dai preparativi che talvolta possiamo dimenticare l’essenziale. “Senz’altro è molto importante preparare tutto perché la nostra casa sia pulita di ogni chametz – fanno notare i nostri “fratelli maggiori” – senz’altro è molto importante preparare tutto perché la nostra tavola sia pronta per il Seder, con le sue matzot, con i suoi quattro bicchieri di vino, con le Hagadot e così via. Ebbene Rabbì Moshé Isserles, conosciuto come l’Haremà (1525ca.-1572) inizia le regole di Pèsach con questa osservazione-mizvà: “È minhag (consuetudine) comperare grani da dividere ai poveri per Pesach…”(Shulchan Aruch, art. 429:1) ed il Chafetz Chaim, nella sua Mishnà Berurà  aggiunge: “Si tratta di un minhag antico del tempo della Ghemarà  (Talmud) e questo si trova ricordato nel Talmud Jerushalmì…e nei nostri posti il minhag è di dare loro farina perché possano preparare le matzot e bisogna dare quanto hanno bisogno per tutti i giorni di Pèsach e se si tratta di persone molto povere si deve pagare loro anche per la cottura delle matzot”. Oggi l’uso generale è di fare offerte in denaro per permettere alle persone bisognose di poter festeggiare la Pasqua come si deve (kimcha depischa). Questi Chachamim vogliono significare che non possiamo assolutamente mettere il nostro cuore in pace con l’invito fatto nella Haggadà a chi ha fame di venire a mangiare da noi; sappiamo bene che ai nostri giorni questo invito rimane molto spesso puramente teorico e sappiamo bene anche che molti sono i bisognosi di aiuto, famiglie che avrebbero piacere di stare assieme e non divise ognuno in un altro tavolo, sia pure ospitale; essi ci dicono che non possiamo sentirci degni di iniziare la nostra Pasqua se non abbiamo fatto quanto ci è possibile per aiutare chi ha bisogno, nella nostra Comunità prima di tutto, in Eretz Israel ed ovunque vi sia bisogno, a poter festeggiare almeno Pèsach come persone libere. Sono cose che sappiamo bene, che ci sembrano ovvie ma che forse proprio per questo rischiano di essere dimenticate e che allora è bene tenerle presenti fin dall’inizio”. Molti leggono e vivono Pèsach e la Pasqua cristiana pensando alla difesa della propria cultura e identità, tra un immondo show politico e l’altro, magari “a spasso” nel Mar Mediterraneo, tra un traffico di esseri umani e l’altro, magari sia a favore sia contro Israele e la Santa Madre Russia cristiana che ha disarmato la Siria dal suo micidiale arsenale chimico, smascherando apertamente la responsabilità degli Usa e dell’Unione Europea sia nel massacro dei bambini siriani da parte dei “ribelli” terroristi islamisti sia nell’avanzata trionfale dei tagliagole e tagliatesta del famigerato presunto Stato Islamico. Un parallelo improprio alla luce della carneficina parigina, libica, tunisina e nigeriana, senza contare la tragedia del Donbass (Ucraina russa) in piena Europa? “La liberazione dalla schiavitù non è un atto che indica un progetto – osserva David Bidussa, storico sociale delle idee – al più sancisce che non si è disposti più a vivere come si è vissuti fino a ieri e che si vuol vivere meglio. A differenza dell’uscita dall’Egitto, la scelta sionista non pensava di eliminare la condizione di inferiorità o di persecuzione e dunque non era la risposta all’antisemitismo. Quella scelta nasceva dalla convinzione che qualunque fosse stato il futuro, non si era disposti a investire solo sul miglioramento delle condizioni materiali della propria vita. La scommessa era sulla volontà di decidere da soli del proprio destino e di provare a se stessi, prima ancora che a chiunque altro, che non solo si era maturi per una condizione di autonomia, ma anche per una di responsabilità. La verifica sul senso di quella scelta e sullo stato di salute di ciò che da quella scelta è scaturito, alcune generazioni dopo, non è se l’antisemitismo sia cresciuto o diminuito, ma se ciò che è nato da quella scelta e attraverso quell’esperienza abbia fatto maturare, o meno, la capacità politica di affrontare le difficoltà del proprio presente”. Gli Ebrei e il loro Stato hanno tutta la loro forza militare ed economica, la creatività, la combattività, l’ostinazione che Israele mostra già uscendo dall’Egitto. Il Popolo ebraico ha il suo destino storico, la fede che lo ha portato per tre millenni a ripetere il Seder e la sua formula finale in terre lontane. Ma oggi, forse, guardando la sedia che lasceranno vuota per Gilad Shalit, dovranno interpretare di nuovo la formula millenaria come una preghiera e magari aggiungere sottovoce un’altra parolina: (gam) leshanà habbà biJerushalaim: anche l’anno prossimo a Gerusalemme. Come si svolge la Pasqua ebraica? Sulla tavola della sera di Pasqua, entro un vassoio, troviamo tre azzime sovrapposte, una zampa arrostita di pollo o tacchino, in ricordo dell’agnello pasquale offerto in sacrificio nel Tempio, un uovo sodo, erbe amare, sedano e un composto di mele, frutta secca, miele e cannella. Nel corso della cena pasquale ebraica si bevono in successione quattro calici, a cui vengono attribuiti precisi significati simbolici. Un quinto calice si versa ma non si beve, poiché è considerato un segno escatologico: la speranza del prossimo Avvento dei tempi messianici. Ogni padre di famiglia a Pasqua è il protagonista della liberazione dall’Egitto in quanto, come Mosè, racconta la vicenda al proprio figlio trasmettendone la perenne attualità. Al termine dei molti riti previsti dal Seder, è uso trattenersi ancora a tavola cantando inni e filastrocche popolari. La più famosa (chag gadja, “un capretto”) paragona la storia d’Israele a quella di un capretto che dopo le persecuzioni (rappresentate da un gatto, da un cane e da un bastone) incontra la redenzione compiuta di persona dal Santo, “benedetto Egli sia”, l’Altissimo. Il rabbino Alberto Moshe Somekh ha raccolto norme, regole, tradizioni e riflessioni sulla festività di Pèsach in un articolo di cui proponiamo un breve estratto. “Il Seder (Leylè Pessach; lett. “ordine [delle sere di Pessach]”) costituisce l’insieme di atti e letture seguito nelle case ebraiche la prima (fuori d’Israele anche la seconda) sera di Pèsach. Gli scopi del Seder sono essenzialmente due: ricordare la liberazione dalla schiavitù egiziana e trasmetterne il messaggio alle nuove generazioni, destando particolarmente l’attenzione dei bambini. Finché il Bet ha-Miqdash (Tempio di Gerusalemme) è esistito, l’atto principale consisteva nell’offerta e nella consumazione del Qorban Pessach (Sacrificio Pasquale, consistente in un agnello arrostito allo spiedo) insieme alla matzah (pane azzimo) e al maròr (erba amara), cui prendeva parte tutta la famiglia, secondo la prescrizione della Torah (Shemot 12)”. Dopo la distruzione del Tempio (70 d.C.) non è più stato possibile compiere il sacrificio. La bibliografia in proposito è vastissima. Preparazione dei cibi e accensione dei lumi nei giorni festivi di Shabbat. “A differenza dei giorni di Yom Tov (festa solenne) è proibito trasportare oggetti, accendere il fuoco in qualsiasi modo e cucinare. Durante il 1°, 2°, 7° e 8° giorno di Pessach (sempre che non cadano di Shabbat) invece è permesso trasportare oggetti fuori casa, cucinare ed accendere il gas a questo scopo, purché da una fiamma già accesa da prima della festa. È però proibito spegnere il gas dopo averlo acceso. I fornelli elettrici possono essere usati solo se tenuti accesi anch’essi da prima dell’inizio della festa, ma ciò è sconsigliabile. Nei giorni di Yom Tov si può cucinare e preparare solo per il giorno stesso (ma non per l’indomani; per giorno stesso si intende dal tramonto all’uscita delle prime tre stelle la sera successiva: in tutto circa 25 ore). Perciò i cibi per il secondo Seder debbono essere stati cucinati dalla vigilia o scaldati dopo lo spuntare delle stelle della seconda sera: anche la tavola per la cena va apparecchiata dopo quest’ora o tramite non Ebrei. Così pure la hadlaqat neròt (accensione dei lumi festivi) la seconda sera va eseguita con una fiamma già accesa da prima della festa. Se non è Venerdì sera, si accende il fiammifero e si recita la Berakhah relativa, prima di portare la fiamma ai lumi, in quanto se anche dicessimo che la Berakhah costituisce accettazione di Yom Tov, accendere un lume da un lume già acceso rimane permesso. È perciò preferibile attenersi alla regola generale di recitare la Berakhah su una Mitzwah prima di compiere l’atto cui si riferisce (‘ovèr la-‘asiyatan). Occorre porre attenzione a non spegnere il fiammifero dopo l’uso: lo si appoggerà lasciando che si spenga da solo. Alcuni usano aggiungere la Berakhah She-he-cheyyanu. Le Mitzwòt del Seder. Quattro specifiche Mitzwòt (precetti) si osservano nel Seder anche dopo la distruzione del Bet ha-Miqdash. Due sono di origine biblica: la consumazione della Matzah, assumendo una postura particolare in segno di libertà, detta hassebah; il racconto dell’Uscita dall’Egitto tramite la lettura della Haggadah; e altre due sono di istituzione rabbinica: la consumazione del Maròr: esso è comandato nella Torah solo in relazione al Qorban Pesach, ma i Maestri hanno voluto che si continuasse ad osservarlo in ricordo del Bet ha-Miqdash distrutto; l’assunzione di quattro bicchieri di vino, in momenti particolari e assumendo la hassebah. A queste ultime se ne aggiunge un’altra: la recitazione del Hallèl, che Pèsach ha in comune con altri giorni festivi. Ma il Seder è l’unica occasione annuale in cui il Hallèl viene recitato di sera e a tavola. Accanto alle Mitzwòt propriamente dette, i Maestri hanno istituito diversi Minhaghim (usi) per mantenere il ricordo del Bet ha-Miqdash distrutto e per tener desta l’attenzione dei più piccoli. Pur trattandosi di Mitzwòt ‘Asseh she-ha-zemàn gheramàn (obblighi legati ad un lasso di tempo determinato) le donne sono obbligate al pari degli uomini. Lo si evince dal fatto che: 1) l’obbligo della Matzah è presentato nella Torah in connessione con il divieto di mangiare Chamètz (cibo lievitato), per cui i Maestri deducono che “chi ha il divieto di mangiare Chamètz ha l’obbligo di mangiare Matzah” e, per estensione, tutti gli altri obblighi del Seder; 2) anche le donne hanno beneficiato del miracolo della liberazione. Ne consegue che anche le donne sono obbligate alla lettura della Haggadah, ma è opportuno che gli uomini non si basino sulla loro lettura per uscire d’obbligo. Esse sono parimenti tenute a recitare il Hallèl. Fa eccezione per alcuni, come vedremo, solo la hassebah. Una persona in lutto è parimenti tenuta a tutte le Mitzwòt, Hallèl compreso, ma non è opportuno che conduca il Seder, se vi sono altri in grado di farlo al suo posto. I bambini vanno progressivamente educati in base all’età e alla maturazione a partecipare al Seder e alle sue Mitzwòt. Coloro che si sono convertiti all’Ebraismo osservano tutte le Mitzwòt del Seder e leggono la Haggadah, nonostante i numerosi riferimenti ai “nostri padri”. Anche i non vedenti sono parimenti tenuti a recitare la Haggadah ovvero ad ascoltarla, sebbene non vedano la Matzah e il Maròr; pertanto essi possono fare uscire d’obbligo altri anche se l’handicap li ha colpiti dalla nascita. Mentre per alcune Mitzwòt (Matzah e Maròr) è prescritta la recitazione di una Berakhah particolare, per altre non è stata istituita: sia i quattro bicchieri di vino che la lettura della Haggadah sono infatti Mitzwòt che non si esauriscono in un unico atto consecutivo, ma subiscono interruzioni e per questi casi i Maestri non hanno previsto la recitazione di una Berakhah. Per la stessa ragione non viene recitata durante il Seder la consueta Berakhah prima del Hallèl. Scrive il versetto: “E mangeranno la carne (dell’agnello pasquale) durante questa notte”. Se ne evince che non solo il sacrificio pasquale, ma per estensione tutte le Mitzwòt del Seder vanno eseguite dopo l’uscita delle prime tre stelle. Se il Venerdì sera e nelle altre sere festive è lecito recitare il Qiddush anche prima della notte, durante il Seder non è lecito anticipare per il fatto che il bicchiere di vino che si beve per il Qiddush è a tutti gli effetti il primo dei quattro bicchieri prescritti ed è parte integrante delle Mitzwòt della notte di Pèsach. Peraltro,“la tavola deve già essere apparecchiata dalla vigilia, in modo che il Seder possa cominciare appena è buio. Anche chi sta studiando al Bet Midrash deve predisporsi ad uscire presto, perché è Mitzwah cominciare non appena possibile per evitare che i bambini si addormentino”. In linea di principio l’intero Seder deve essere portato a termine nel medesimo luogo in cui lo si è cominciato, in analogia con le regole relative al Qorban Pesach che non consentivano di consumarlo in due gruppi di persone differenti. La Qe’arah. Prima di iniziare il Seder è necessario aver predisposto su un apposito vassoio (qe’arah) l’occorrente per le Mitzwòt del Seder. Lo scopo della qe’arah non è soltanto di avere a disposizione gli assaggi quando si rende necessario consumarli, ma anche assolvere al dovere di testimoniare, vedendoli, il significato che ciascuno di essi ha. È infatti scritto nella Torah: “L’Altissimo ha agito a favor mio in Egitto per questo (scopo)” e i Maestri della Haggadah hanno interpretato che si riferisce “all’ora in cui la Matzah e il Maròr sono disposti davanti a te”. Per questa ragione è opportuno che i cibi della qe’arah rimangano sulla tavola fino al termine del Seder. Peraltro, non è necessario che ogni commensale abbia la sua qe’arah, ma è sufficiente che se ne trovi una di fronte a chi guida il Seder. È opportuno, come norma generale, preparare tutti i cibi prima che inizi la festa: ciò diventa un obbligo tassativo se Pèsach cade di Shabbat, in quanto in tal giorno non è lecito cucinare del tutto. Ciò che serve per il Sabato sera, infine, deve essere tutto pronto fin dal Venerdì. I cibi sono i seguenti: Tre Matzòt sovrapposte: il numero si spiega con il fatto che nelle sere festive è necessario recitare la Berakhah su due pani interi in memoria della doppia razione di manna nel deserto. Dal momento che, come si vedrà, durante il Seder uno dei pani deve essere spezzato prima della Berakhah, è necessario prevederne tre. Si deve fare in modo che le Matzòt siano shemuròt (dette anche semplicemente shimmurim) ovvero impastate con farina proveniente da grano controllato fin dal momento della mietitura (mi-sh’at qetzirah) e cotte a mano le-shem Matzat Mitzwah, in base al versetto “e sorveglierete le Matzòt”. Durante lo svolgimento del Seder le Matzòt rimangono scoperte, perché sono chiamate nella Torah lechem ‘oni, interpretato dai Maestri come “pane sul quale si danno molte risposte”. Solo nei momenti in cui si solleva il bicchiere di vino devono essere coperte per preservarne la dignità, in quanto come alimento il pane è considerato più importante del vino. Alcuni hanno l’uso di separare fra loro le tre Matzòt con tovaglioli e/o di collocarle fuori dalla qe’arah. Se delle tre Matzòt una si spezza inavvertitamente prima dell’apparecchiatura, la si collochi come Matzah mediana che è destinata comunque a essere spezzata molto prima delle altre.
Maròr: foglie di insalata. L’uso più generale, seguito anche in Italia, è di adoperare le foglie di lattuga romana, dopo averne accuratamente controllato eventuali infestazioni. Ai tempi del Bet ha-Miqdash si metteva in tavola anche la carne del Qorban Pesach. Per la precisione, dopo la distruzione i Maestri hanno prescritto che si collocassero sulla qe’arah “due cibi cucinati”. Nell’attuale cena pasquale ebraica non si mangia l’agnello. Zeroa’: zampa. Per il primo cibo, in ricordo dell’agnello pasquale, si usa una zampa di bovino, ovino o pollame arrostita direttamente sul fuoco, così come veniva arrostito l’agnello: essa ricorda il “braccio disteso” con cui l’Altissimo ci ha redento dall’Egitto. In mancanza può essere adoperata altra parte dell’animale, preferibilmente dotata di osso. La zampa non viene mai sollevata dal vassoio durante il Seder, per non dare l’impressione di aver offerto il Qorban Pesach fuori dal Bet ha-Miqdash: l’uso è di mangiarla la mattina successiva al secondo Seder, quando non serve più. Betzah: uovo. Il secondo cibo, in ricordo del Qorban Chaghigah (sacrificio festivo) che veniva offerto ogni Yom Tov, è un uovo sodo: esso è simbolo del lutto per la distruzione del Tempio. È preferibile che l’uovo sodo sia lasciato nel guscio. Karpàs: verdura. L’uso più comune è di adoperare gambi di sedano che sono più facili da pulire da eventuali infestazioni rispetto alle foglie. Devono essere crudi. A lato si deve preparare un contenitore di aceto di vino o soluzione di acqua e sale nella quale intingere il karpàs. L’acqua salata deve essere preparata prima di Yom Tov. Charosset: impasto di frutta in ricordo della malta (in ebraico: cheres o tit) adoperata dagli schiavi Ebrei in Egitto per confezionare i mattoni. Viene preparata con i frutti ai quali viene paragonato il Popolo d’Israele nello Shir ha-Shirim (la Meghillah che viene letta durante Pèsach; in toto o in parte: mela, melagrana, fico, dattero, noce e mandorla). Il tutto è cosparso di cannella e cinnamomo, in ricordo della paglia. Secondo un’altra opinione ricorda il sangue versato dagli Ebrei nel corso della schiavitù e pertanto si usa annaffiarlo di vino. Il Charòsset si adopera durante il Seder per intingervi il Maròr. La qe’arah in quanto tale non è mai menzionata nel Talmud e vi sono usi diversi in merito alla disposizione dei cibi su di essa.  In mancanza di un determinato uso nella propria famiglia o nella propria Comunità ci si può attenere al principio per cui quanto prima un assaggio si rende necessario durante il Seder tanto più vicino lo si colloca alla persona, per evitare che questa si trovi a dovere “scavalcare le Mitzwòt”: nell’ordine 1) karpàs con acqua salata alla sua sinistra; 2)  Matzòt; 3) Maròr con Charòsset alla sua sinistra; 4) Zeroa’ a destra e Betzah alla sua sinistra. Vi sono abitudini diverse in merito alla domanda se prelevare i cibi dalla qe’arah, quando si richiede di mangiarli, o predisporne a parte lasciando intatto il vassoio. Vanno tenuti presenti due principi: 1) il vassoio va tenuto sulla tavola completo con una rappresentanza di ciascun assaggio fino al termine del Seder; 2) della Matzah e del Maròr si richiede che ciascuno dei commensali mangi almeno un ke-zayit più volte nel corso del Seder. È perciò difficile, soprattutto in presenza di molti ospiti, che il relativo quantitativo possa essere interamente contenuto nella qe’arah e dovrà essere conservato da parte”. La hassebah. “Persino un bambino deve stare reclinato mentre mangia”. Come segno di libertà, i Maestri hanno stabilito che nel corso del Seder si deve stare in posizione reclinata, ovvero appoggiati con il braccio sinistro (hassebat semòl), preferibilmente su un cuscino: identica regola vale anche per i mancini. Nei tempi antichi si banchettava semi-coricati sui triclini e tale era la consueta postura di rilassamento. Con il passare dei secoli sono mutate le abitudini, tanto che già alcuni Decisori medioevali hanno ritenuto che l’obbligo della hassebah non fosse più in vigore, ma la maggioranza ha stabilito la norma in senso rigoroso. I più ritengono anzi che la hassebah rientri oggi proprio in quei gesti inusuali che dovrebbero spingere i bambini a porre domande: non sarà un caso che fra le domande del Mah Nishtannah quella sulla hassebah sia stata introdotta più tardi, allorché si era persa l’abitudine. Vi sono regole che vincolano reciprocamente i commensali a questo proposito. Il figlio osserva la hassebah anche a tavola con il padre, perché ciò non è considerato mancanza di rispetto nei suoi confronti, anche se il padre è contemporaneamente il suo principale Maestro di Torah (rabbò muvhaq). Ma normalmente il discepolo non osserva la hassebah a tavola con il suo principale Maestro di Torah se questi non è suo padre, a meno che il Maestro non gliene dia il permesso. Se è presente un Maestro di Torah di importanza straordinaria (muflàg be-dorò) tutti i commensali devono considerarsi come suoi discepoli. Le donne sefaradite usano osservare la hassebah a priori, mentre quelle ashkenazite no. La persona nel primo anno di lutto non è esente dalla hassebah. La hassebah non va in realtà osservata per tutta la durata del Seder. Le parti di lettura (Magghid, Barèkh, Hallèl) esigono infatti una concentrazione particolare e per i bocconi non di Mitzwah (karpàs), ovvero quelli “amari” (Maròr e, secondo un’opinione minoritaria, anche Korèkh) non è richiesta. In pratica, a priori si deve osservare la hassebah sette volte durante il Seder: quando si beve ciascuno dei quattro bicchieri di vino e ognuna delle tre volte in cui si mangia la Matzah di Mitzwah (Motzì Matzah, Korèkh secondo la maggioranza delle opinioni e Tzafùn). In caso di dimenticanza l’opinione più facilitante ritiene che sia necessario ripetere l’atto di mangiare reclinati solo in occasione di Motzì Matzah (senza ripetere le Berakhot) in quanto è questa l’unica occasione in cui la hassebah accompagna un’azione comandata dalla Torah secondo tutte le opinioni.  Lo stesso criterio può essere adottato anche a priori in situazioni di grave disagio. Gli Arbà’ Kossòt. “Gli versano (il vino)”. Dal linguaggio della Mishnah impariamo che colui che conduce il Seder si fa versare il vino da altri, in segno di libertà. È oggi uso comune estendere questa abitudine a tutti i commensali. Mentre in tutte le altre occasioni solo a colui che recita il Qiddush si richiede di tenere in mano il bicchiere con il vino e di berne, durante il Seder tutti i commensali sono egualmente soggetti a questo precetto e anche se escono d’obbligo dalla recitazione del Qiddush con quella effettuata dal capofamiglia sono tenuti a bere il vino “in proprio” secondo le modalità che verranno spiegate in seguito. La stessa regola vale anche per i bicchieri successivi. I Maestri hanno infatti reso obbligatorio per tutti, durante il Seder, bere quattro bicchieri di vino. Fra le numerose ragioni indicate nel Talmud la più famosa è il riferimento alle “quattro promesse di redenzione” con cui l’Altissimo ha annunciato a Mosheh il suo intervento in Egitto: wekotzetì (vi farò uscire) – wehitzaltì (vi salverò) – wegaaltì (vi redimerò) – welaqachtì (vi prenderò). I quattro bicchieri vanno assunti secondo l’ordine stabilito dai Maestri nella Haggadah: il primo al termine del Qiddush (Qaddesh), il secondo al termine del Magghid, il terzo al termine della Birkat ha-Mazòn (Barèkh) e il quarto al termine del Hallèl. Colui che beve i quattro bicchieri uno dopo l’altro esce d’obbligo solo per un bicchiere. Il vino deve essere di preferenza rosso, in quanto questo era il suo colore ai tempi biblici, come dice il versetto: “non osservare il vino mentre rosseggia”; inoltre esso ricorda il sangue delle piaghe e dell’agnello pasquale che, sugli stipiti delle porte in Egitto, permise la nostra liberazione. Ma se si trova un vino bianco più pregiato, questo ha la precedenza. Non è opportuno diluire il vino nell’acqua. Dal momento che con il vino si assolve anche il precetto della gioia festiva (simchat Yom Tov) è necessario a priori che esso abbia potere inebriante, ma non è necessaria una gradazione alcolica elevata: chi è particolarmente sensibile dovrà tenerne conto allo scopo di riuscire a portare a termine il Seder. Gli astemi, coloro cui il vino fa male, e così pure i bambini, potranno sostituirlo con succo d’uva. Se la persona non tollera neppure il succo d’uva, potrà uscire d’obbligo ascoltando il Qiddush da colui che conduce il Seder e uscire d’obbligo con la bevuta di quest’ultimo. Il bicchiere deve essere sufficientemente grande da contenere un revi’it (quarto di log, pari al volume di un uovo e mezzo): sull’identificazione  di questa misura oggi vi sono due opinioni. Secondo R. Chayim Naeh sono 86 cc, mentre per il Chazòn Ish sono richiesti almeno 125 cc. L’uso è di essere più rigorosi di Venerdì sera, allorché l’obbligo del Qiddush è di origine biblica, mentre se il Seder ha luogo in una sera differente è sufficiente basarsi sull’opinione più facilitante, perché l’obbligo del Qiddush di Yom Tov è solo per estensione rabbinica. Sebbene in tutte le altre occasioni è sufficiente a priori che chi recita il Qiddush beva la maggior parte del revi’it, nel caso del Seder è necessario che ciascuno si sforzi di bere il revi’it per intero. Solo a posteriori si è usciti d’obbligo avendo bevuto la maggior parte del revi’it. In ogni caso, è opportuno non adottare bicchieri più grandi della misura necessaria per non entrare in discussione sul quantitativo minimale da bere. La Mishnah stabilisce che non si possono intercalare altri bicchieri fra il terzo e il quarto, per il timore di ubriacarsi e di non essere più in grado di terminare il Hallèl. La discussione dei Maestri verte se analoga motivazione si applica anche al vino bevuto “a stomaco vuoto” prima del pasto e dunque nell’intervallo fra i primi due bicchieri. Lo Shulchan ‘Arukh, pur non vietando di aggiungerne altri, codifica che durante la recitazione del Magghid “è opportuno astenersene…se non per grave necessità”. Solo durante il pasto è lecito bere a volontà. Il bicchiere dovrà essere dignitoso e integro: è assai preferibile evitare il materiale monouso. Esso dovrà essere perfettamente pulito e illibato all’inizio del Seder per il Qiddush, ma in linea di principio non è necessario risciacquarlo in vista delle bevute successive. Sarà sufficiente tornare a riempirlo ogni volta, a meno che nel frattempo non vi siano entrati altri liquidi o briciole di cibo. Per questa ragione è consuetudine rilavarlo o sostituirlo prima del “terzo bicchiere”, sul quale si recita la Birkat ha-Mazòn subito dopo il pasto”. Questa è la Pasqua ebraica che siamo tenuti a ricordare. Pesach kasher vesameach. Capita abbastanza spesso che la Pasqua cristiana cada assai vicino o addirittura sia inclusa nel periodo della festa ebraica di Pèsach. Ciò non fa meraviglia. L’andamento passionale delle due feste è simile: da una situazione di angoscia e di dolore si giunge al trionfo finale grazia all’Altissimo Vittorioso che agisce nella Storia umana. La Pasqua cristiana è però, nel suo svolgimento, non un funerale, ma la celebrazione della Vittima Innocente che risorge dai morti. In Pèsach l’accento è posto sulla liberazione di un Popolo dalla schiavitù, non sul passato di oppressione. Nel testo dell’Haggadà, il rituale della cena pasquale ebraica, si ricorda l’aspetto doloroso di quella schiavitù, la persecuzione e l’afflizione che ne vennero. E si dice che “in ogni generazione” c’è chi “si leva contro di noi per distruggerci”. Mentre il fuoco della “passione ebraica” è tutto focalizzato sulla gratitudine e sulla gioia per la libertà riconquistata, nella Pasqua cristiana, al dolore per la Passione e morte di Gesù in croce segue la gioia della Sua Resurrezione quando le pie donne, per prime, trovano la tomba di Gesù vuota! Segue la loro gioia pasquale e l’annuncio ai discepoli, alcuni dei quali ancora increduli. Dunque nel confronto fra le due feste di Pasqua (Mosè è quasi assente nella versione del racconto contenuta nell’Haggadà) si nota una scelta di tempi, emozioni e di punti di vista assai diversi: l’accento ebraico è messo sulla festa della libertà e non sulla sofferenza dell’oppressione; i miracoli (le piaghe) sono moltiplicati dall’esegesi rabbinica fino a quasi normalizzarli. La Pasqua cristiana è la celebrazione della Pasqua di Gesù, vittima per i nostri peccati e primizia con la Sua Resurrezione della vita eterna per tutti i Suoi. Nella Pasqua i cristiani riconoscono in Gesù Risorto molto più di un normale miracolo. La Pèsach non si fonda affatto sulla condizione di vittima, ridotta a un elemento fra i tanti. La Pasqua ebraica non valorizza affatto l’aspetto di “vittime innocenti” del Popolo ebraico, soprattutto dopo la Shoah. La Pasqua ebraica non commemora né rimpiange “l’innocente sopportazione” degli Ebrei chassidici distrutti dalla Shoah, il “nuovo Golgota” secondo le parole di San Giovanni Paolo II. Anche se non mancano eminenti pensatori, come Joshua Leibowitz, che sostengono l’aspetto positivo dell’essere “portati al macello come pecore”. Il tema del sacrificio e del “porgere l’altra guancia” non è un tema ebraico pasquale. Lo è semmai l’amare il prossimo come se stesso. Pèsach e nessun’altra festa ebraica sono la celebrazione dello statuto di vittime: nè Channukkà né Purim che ricordano vittorie sul genocidio sempre mettendo in rilievo il miracolo della sopravvivenza. Neppure le ricorrenze più tristi come Kippur o Tishà beAv (in cui si ricorda la distruzione di Gerusalemme) hanno al centro una condizione passiva di vittime. Sono semmai la lucida e razionale analisi degli errori e dei peccati commessi che giustificano la punizione divina. Dunque, la Pasqua ebraica non commemora né celebra vittime e martiri. Se al centro della festa cristiana Gesù, il Figlio del Dio Vivente, muore sulla croce, nel racconto ebraico è importante che Isacco non perisca ma sia salvato prima di essere immolato. La storia sacra ebraica celebra il superamento di prove e l’arrivo alla Terra promessa, e insegna l’obbligo di mantenere la purezza religiosa. Quando nella Bibbia i profeti minacciano spesso dolori e parlano di Israele come del “servo sofferente”, per gli Ebrei lo fanno in vista di una restaurazione messianica del regno di Israele che dovrà avvenire nel tempo e nel mondo (qui sulla Terra) e non in una condizione trascendente o su un altro esopianeta. Nella Storia ebraica la prima forte menzione di martiri, cioè di giovani fedeli che muoiono per non rinnegare la fede, compare nel Secondo Libro dei Maccabei, risalente al I-II Secolo avanti Cristo. Nella Storia ebraica i martiri (i caduti per la “santificazione del Nome”) non vengono celebrati da “santi”. Gli Ebrei non hanno agiografie e martirologi, e preferiscono ricordarli per le loro altre virtù. Com’è la storia di Rabbi Akivà, ucciso atrocemente dai Romani, ma che è importante nel mondo ebraico soprattutto per il suo sapere e la sua autorità rabbinica. Dunque, se non vi è affatto nell’Ebraismo una vocazione vittimaria, ha altrettanto poco senso parlare di “religione olocaustica”, sgradita espressione dei negazionisti oggi puniti anche dalla Legge italiana. La Pasqua ebraica è fortemente legata all’idea positiva del realizzarsi dell’Uomo nella vita e indica come modello non la sofferenza per la fede, non l’ascetismo o il martirio, ma la gioia della vita buona e piena di senso vissuta secondo le sue regole naturali. D’altra parte Ebrei asceti e martiri insieme a santi Cristiani interessati ad annunciare il Vangelo di Gesù affermando con l’esempio i loro ideali nel mondo, laicamente, sono sempre esistiti. Ma, nonostante la parentela d’origine, l’orientamento antropologico fondamentale delle due religioni, a Pasqua come in tutte le altre feste, è assai diverso: ricordarselo è la base indispensabile di ogni dialogo costruttivo. Per i cristiani, le laudi della Passione di Gesù, la Messa In Coena Domini, la pietà popolare con la processione mattutina del Cristo Morto e della Madonna alla ricerca del Figlio, e il Sabato della Madre nel Triduo della Settimana Santa, introducono l’Evento focale per l’Umanità intera: la Domenica di Resurrezione del Signore, la Pasqua di Gesù che distrugge la morte per sempre. La tomba è vuota. Perché cercate tra i morti il Vivente? Nel ricordo sempiterno delle 312 vittime del terremoto di L’Aquila si rinnova in Abruzzo, per i cristiani di rito cattolico, il Triduo pasquale di celebrazioni che precedono la solenne Grande Veglia del Sabato Santo (la madre di tutte le veglie) e la festività della Santa Pasqua di Resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo. In Abruzzo, il Giovedì Santo, dopo la solenne Messa Crismale della mattina celebrata dal Vescovo in Cattedrale, l’unica Messa consentita è quella della sera, In Coena Domini, giorno della istituzione della Eucarestia e del Sacerdozio. In queste ore si meditano le parole di Gesù nell’Ultima Cena (Gv 13-17), si adora il Santissimo Sacramento e si visitano le chiese cittadine fino alle ore 24. Il Venerdì Santo, In Passione Domini, per antichissima tradizione la Chiesa Cattolica non celebra la Messa. Dopo la Via Crucis, si fa soltanto la Commemorazione della Passione del Signore, nel contesto della quale soltanto è possibile ricevere la Comunione. Neanche il Sabato Santo la Chiesa Cattolica celebra la Messa. Solo nelle ore notturne si celebra la Grande Veglia Pasquale, con il rinnovo delle Promesse Battesimali, il Santo Battesimo dei neonati, l’accoglienza dei Catecumeni (i Nuovi Cristiani che ricevono la Comunione e la Cresima), agli orari stabiliti da ogni singola Chiesa. Il Sabato Santo è possibile celebrare l’Ora della Madre, rito di origini orientali che contempla la fede di Maria Santissima in attesa della Resurrezione di Gesù. All’Udienza Generale di Mercoledì 1° Aprile 2015, in Piazza San Pietro, Papa Francesco spiega la sua catechesi sul Triduo Pasquale. “È il Giovedì Santo. Nel pomeriggio, con la Santa Messa ‘nella Cena del Signore’, ha inizio il Triduo Pasquale della Passione, Morte e Resurrezione di Cristo – osserva Papa Bergoglio – che è il culmine di tutto l’anno liturgico e anche il culmine della nostra vita cristiana. Il Triduo si apre con la commemorazione dell’Ultima Cena. Gesù, la vigilia della Sua passione, offrì al Padre il Suo corpo e il Suo sangue sotto le specie del pane e del vino e, donandoli in nutrimento agli Apostoli, comandò loro di perpetuarne l’offerta in Sua memoria. Il Vangelo di questa celebrazione, ricordando la lavanda dei piedi, esprime il medesimo significato dell’Eucaristia sotto un’altra prospettiva. Gesù, come un servo, lava i piedi di Simon Pietro e degli altri undici discepoli (Gv 13,4-5). Con questo gesto profetico, Egli esprime il senso della Sua vita e della Sua passione, quale servizio a Dio e ai fratelli: «Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mc 10,45). Questo è avvenuto anche nel nostro Battesimo – ricorda Papa Francesco – quando la grazia di Dio ci ha lavato dal peccato e ci siamo rivestiti di Cristo (Col 3,10). Questo avviene ogni volta che facciamo il memoriale del Signore nell’Eucaristia: facciamo comunione con Cristo Servo per obbedire al Suo comandamento, quello di amarci come Lui ci ha amato (Gv 13,34; 15,12). Se ci accostiamo alla santa Comunione senza essere sinceramente disposti a lavarci i piedi gli uni agli altri, noi non riconosciamo il Corpo del Signore. È il servizio di Gesù donando se stesso, totalmente. Poi, nella liturgia del Venerdì Santo meditiamo il mistero della morte di Cristo e adoriamo la Croce. Negli ultimi istanti di vita, prima di consegnare lo spirito al Padre, Gesù disse: «È compiuto!» (Gv 19,30). Che cosa significa questa parola che Gesù dice: ‘È compiuto!’? Significa che l’opera della salvezza è compiuta, che tutte le Scritture trovano il loro pieno compimento nell’amore del Cristo, Agnello immolato. Gesù, col suo Sacrificio, ha trasformato la più grande iniquità nel più grande amore. Nel corso dei secoli – osserva il Santo Padre – ci sono uomini e donne che con la testimonianza della loro esistenza riflettono un raggio di questo amore perfetto, pieno, incontaminato. Mi piace ricordare un eroico testimone dei nostri giorni, Don Andrea Santoro, sacerdote della diocesi di Roma e missionario in Turchia. Qualche giorno prima di essere assassinato a Trebisonda, scriveva: «Sono qui per abitare in mezzo a questa gente e permettere a Gesù di farlo prestandogli la mia carne. Si diventa capaci di salvezza solo offrendo la propria carne. Il male del mondo va portato e il dolore va condiviso, assorbendolo nella propria carne fino in fondo, come ha fatto Gesù» (A. Polselli, Don Andrea Santoro, le eredità, Città Nuova, Roma 2008, p. 31). Questo esempio di un uomo dei nostri tempi, e tanti altri, ci sostengano nell’offrire la nostra vita come dono d’amore ai fratelli, ad imitazione di Gesù”. A braccio Papa Bergoglio rileva che “anche oggi ci sono tanti uomini e donne, veri martiri che offrono la loro vita con Gesù per confessare la fede, soltanto per quel motivo. È un servizio, servizio della testimonianza cristiana fino al sangue, servizio che ci ha fatto Cristo: ci ha redento fino alla fine. E questo è il significato di quella parola ‘È compiuto!’. Che bello sarà quando tutti noi, alla fine della nostra vita, con i nostri sbagli, i nostri peccati, anche con le nostre buone opere, con il nostro amore al prossimo, potremo dire al Padre come Gesù ‘È compiuto!’, ma non con la perfezione con cui lo ha detto Lui, ma dire: ‘Ma, Signore, ho fatto tutto quello che ho potuto fare’, ‘È compiuto!’. Adorando la Croce, guardando Gesù, pensiamo nell’amore, nel servizio, nella nostra vita, nei martiri cristiani, e anche ci farà bene pensare alla fine della nostra vita. Nessuno di noi sa quando avverrà questo ma possiamo chiedere la grazia di poter dire: Padre, ho fatto quello che ho potuto. È compiuto! Il Sabato Santo – spiega il Papa – è il giorno in cui la Chiesa contempla il “riposo” di Cristo nella tomba dopo il vittorioso combattimento della croce. Nel Sabato Santo la Chiesa, ancora una volta, si identifica con Maria: tutta la sua fede è raccolta in Lei, la prima e perfetta discepola, la prima e perfetta credente. Nell’oscurità che avvolge il creato, Ella rimane sola a tenere accesa la fiamma della fede, sperando contro ogni speranza (Rm 4,18) nella Resurrezione di Gesù. E nella grande Veglia Pasquale, in cui risuona nuovamente l’Alleluia, celebriamo Cristo Risorto centro e fine del Cosmo e della Storia; vegliamo pieni di speranza in attesa del Suo ritorno glorioso, quando la Pasqua avrà la sua piena manifestazione. A volte il buio della notte sembra penetrare nell’anima; a volte pensiamo: “ormai non c’è più nulla da fare”, e il cuore non trova più la forza di amare. Ma proprio in quel buio Cristo accende il fuoco dell’amore di Dio: un bagliore rompe l’oscurità e annuncia un nuovo inizio, qualcosa incomincia nel buio più profondo. Noi sappiamo che la notte è più notte e ha più buio poco prima che incominci la giornata. Ma proprio in quel buio è Cristo che vince e che accende il fuoco dell’amore. La pietra del dolore è ribaltata lasciando spazio alla speranza. Ecco il grande mistero della Pasqua! In questa Santa Notte la Chiesa ci consegna la luce del Risorto, perché in noi non ci sia il rimpianto di chi dice “ormai…”, ma la speranza di chi si apre a un presente pieno di futuro: Cristo ha vinto la morte, e noi con Lui. La nostra vita non finisce davanti alla pietra di un Sepolcro, la nostra vita va oltre con la speranza al Cristo che è risorto proprio da quel Sepolcro. Come cristiani siamo chiamati ad essere sentinelle del mattino, che sanno scorgere i segni del Risorto, come hanno fatto le donne e i discepoli accorsi al Sepolcro all’alba del primo giorno della settimana. Cari fratelli e sorelle, in questi giorni del Triduo Santo non limitiamoci a commemorare la Passione del Signore, ma entriamo nel mistero, facciamo nostri i suoi sentimenti, i suoi atteggiamenti, come ci invita a fare l’Apostolo Paolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5). Allora la nostra sarà una Buona Pasqua”. San Giovanni Paolo II un giorno disse: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà, aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura!”. Nel decimo anniversario della morte di San Giovanni Paolo II, il 2 Aprile 2005, alla vigilia della Domenica della Divina Misericordia a lui tanto cara, Papa Francesco lo ricorda “come grande Testimone di Cristo sofferente, morto e risorto, e gli chiediamo di intercedere per noi, per le famiglie, per la Chiesa, affinché la luce della resurrezione risplenda su tutte le ombre della nostra vita e ci riempia di gioia e di pace”. Rivolgendo poi il suo pensiero ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli, così Papa Bergoglio li ha esortati ricordando Papa Wojtyla: “Il suo esempio e la sua testimonianza sono sempre vivi tra noi. Cari giovani, imparate ad affrontare la vita con il suo ardore e il suo entusiasmo; cari ammalati, portate con gioia la croce della sofferenza come egli ci ha insegnato; e voi, cari sposi novelli, mettete sempre Dio al centro, perché la vostra storia coniugale abbia più amore e più felicità”. Nelle ore mattutine del Venerdì Santo si svolge la tradizionale processione della “Desolata”, la devota rappresentazione paraliturgica della Madre che va alla ricerca angosciosa del Figlio condannato a morte. La processione si avvia con la sola statua dell’Addolorata per il giro delle Sette Chiese. Inizia dalla Cattedrale Aprutina e termina all’Annunziata dove trova il Cristo Morto giacente su un’artistica bara. È una commovente plurisecolare manifestazione di religiosità popolare abruzzese. Con gli uomini che indossano la tunica nera e recano la croce, mentre le donne velate e in gramaglie trasportano la statua della Madonna. Nella processione serale del Cristo Morto sono presenti molti Simboli di Passione, sia statuari sia viventi. Quelli statuari, oltre al Cristo e all’Addolorata, rappresentano la Fede, il Calvario, la Corona, l’Angelo, la Colonna, la Croce e S. Michele Arcangelo; quelli viventi sono: La Veronica e la Maddalena, le sette Addoloratine che raffigurano le “sette spade” della Madonna, un gruppo numeroso di Pie Donne e di “Cantarine” che intonano i canti popolari, detti “lamentele”. Tutto ha inizio nella notte tra Giovedì e Venerdì Santo. Le Arciconfraternite dei Cinturati e di S.S. Annunziata guidano rispettivamente le solenni processioni della Madonna Addolorata e del Cristo Morto. La prima, come vuole la tradizione da 753 anni a questa parte, detta anche “Penitenziale”, è guidata dall’Arciconfraternita dei Cinturati istituita nel 1260. La statua della Madonna, portata a spalla da sole donne, effettua un percorso di 5,5 km tra le vie della città aprutina con “soste” nelle sette chiese cittadine in ricordo del dolore di Maria Santissima nella ricerca del Figlio Gesù tra le vie di Gerusalemme (cf. film The Passion di Mel Gibson, Usa 2004). La processione, alla quale partecipano i rappresentanti delle istituzioni laiche e il popolo dei fedeli, parte alle ore 4 del mattino di Venerdì Santo per concludersi alle ore 7 con la solenne benedizione del Vescovo. Venerdì Santo, nel pomeriggio, si svolge la solenne processione del Cristo Morto, guidata dall’Arciconfraternita di S.S. Annunziata fin dal 1852, anno in cui la signora Bonolis donò il manto della bara per il baldacchino del Cristo. La processione del popolo cristiano aprutino con i simboli della passione e morte di Gesù, è accompagnata dalle musiche di una banda musicale (in esecuzione per le vie cittadine fin dalle ore 16) e dal Coro della Cattedrale Aprutina. La processione del Cristo Morto, il cui baldacchino è portato a spalla dagli artigiani, ha inizio alle ore 18:30 e si snoda per le vie cittadine in un percorso di circa 4 Km fino al rientro nella chiesa della S.S. Annunziata con la solenne benedizione del Vescovo. In queste processioni, soprattutto nella Via Crucis, l’interazione tra elementi tradizionali e moderni, nella suggestione delle scenografie, dei costumi e delle colonne sonore, intendono proporre una rilettura originale della Passione di Gesù in 14 scene. I primi “quadri” fanno rivivere alcuni momenti della vita pubblica di Gesù: dal Battesimo di Giovanni Battista ai Suoi miracoli ed insegnamenti. Le scene successive fanno ripercorrere il complotto dei Sommi Sacerdoti del Sinedrio, l’Ultima Cena e la cattura nell’orto degli ulivi, per poi passare ai “processi” davanti a Caifa, Erode e Pilato. Di grande impatto scenografico ed emotivo sono le ultime scene che segnano il dolore, dal Calvario al Rimorso di Giuda, dalla Morte in Croce di Gesù fino alla Deposizione tra le braccia della Madonna. La processione del Cristo Morto che si svolge a Chieti, il Venerdì Santo, è una delle più suggestive e famose della Regione Abruzzo. Curata dall’antica Arciconfraternita del Sacro Monte dei Morti, vive da secoli con la stessa sacra e solenne drammaticità. All’imbrunire, per le vie cittadine illuminate dalla fiamma di alti tripodi e dai ceri di migliaia di fedeli, avanzano distanziati in mezzo al corteo i Simboli della Passione, artistiche statue lignee realizzate nel 1855 (il gallo, l’Angelo, la scala, le tenaglie, le lance, la borsa e la Croce appena sbozzata). Gli appartenenti alle diverse Confraternite indossano l’abito del proprio sodalizio e procedono incappucciati a passo cadenzato. Dai balconi e dalle finestre che si aprono lungo il percorso della processione pendono coperte di seta (in tutta Italia) con il crocifisso. Il Cristo Morto (opera d’arte del Seicento) coperto da un preziosissimo velo bianco, giace su una bara avvolta da un drappo di velluto nero finemente ricamato in oro. È portato a spalla dagli “incappucciati” dell’Arciconfraternita della Buona Morte. Segue l’artistica e molto espressiva statua dell’Addolorata, con abito di seta nera ricamato a fili d’oro. Un fremito di commozione vibra nell’anima di ognuno al canto grave e solenne del “Miserere” composto dal Maestro teatino Saverio Selecchy vissuto tra il XVIII e il XIX Secolo. Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam: è una struggente melodia cantata soltanto da centinaia di voci maschili, sorretta dal suono di centocinquanta violini. La potenza corale e la dolcezza melodica creano un’atmosfera di profonda mestizia. Anche a Lanciano la Processione del Cristo Morto si svolge in due tempi. Alcune caratteristiche mostrano la sopravvivenza di elementi scenografici tipici della drammaturgia sacra medievale. La sera del Giovedì Santo inizia una processione notturna che sosta nelle chiese in cui sono stati allestiti i “sepolcri”. Vi partecipano incappucciati e vestiti con la tunica nera, su cui spicca il collare d’oro, i confratelli dell’Arciconfraternita della Morte e dell’Orazione. Nella processione serale del Venerdì Santo, come altrove, compaiono i simboli o misteri, e non mancano i canti corali, le marce funebri e il Miserere. La statua del Cristo Morto, che secondo una leggenda è stata scolpita da una monaca clarissa durante una visione mistica, viene portata a spalla da dodici confratelli dell’Oratorio di S. Filippo Neri, incappucciati e inguantati. Di rilevante singolarità è la figura del Cireneo, tradizionalmente impersonato da un membro dell’Arciconfraternita, il cui nome è noto solo al Priore, il quale incappucciato e a piedi scalzi porta a spalla per tutto il percorso una grande e pesante croce di legno. Dopo una lunga interruzione, nel 1954 è stata ripristinata a L’Aquila, con linguaggio artistico contemporaneo cui ha contribuito anche il pittore Remo Brindisi, l’antica tradizione della Processione di Cristo Morto. La scenografia è resa grandiosa da centinaia di personaggi in costume che sfilano con i simulacri, i trofei, le statue, le torce e i lampioni, mentre il canto del Miserere eseguito da un gruppo corale accompagnato da un’orchestra di archi dona una drammatica solennità alla sacra rievocazione. In provincia di Pescara meritano di essere ricordate la processione di Moscufo per il pregio e la quantità dei gruppi statuari conservati nell’apposita chiesa della Pietà, e quella di Penne istituita nel 1570 che, oltre ad esibire una preziosa coperta ricamata del 1860 sulla quale giace il Cristo Morto, si caratterizza sia per i simboli tradizionali, riuniti in corpo unico detto “Statua della Passione”, sia per il tamburo, in uso in tutta la zona vestina. Detto “Lu tamorre scurdate” perché privo della corda vibrante. Al calar del Sole il corteo, preceduto dal suonatore del tamburo, avanza, lineare e composto, con passo scandito dal ritmo dei battiti lenti e sordi che creano un’atmosfera di lutto. Odori d’incenso, canti corali e preghiere che si diffondono per le antiche pittoresche vie cittadine, illuminate dai ceri dei fedeli, conferiscono solennità al sacro rito. A Villa Badessa, una frazione del comune di Rosciano, nel Pescarese, vi è insediata dalla prima metà del XVIII Secolo una piccola colonia italo-albanese. Ancora oggi gli Albanesi di Villa Badessa conservano incorrotto il loro idioma e continuano a seguire la liturgia di rito greco-bizantino. Nelle funzioni e nelle processioni della Settimana Santa, non compaiono statue e altri simboli ricorrenti nelle celebrazioni cristiane cattoliche, ma sono presenti antiche sacre Icone venerate dai cristiani ortodossi. Le cerimonie hanno inizio con gli “Enkomia”, il pianto delle donne durante la veglia notturna sulla Icona della deposizione di Cristo. Nelle ore antelucane della Domenica di Pasqua, il Papas, che reca l’Icona della Resurrezione, esce in processione fuori della chiesa, seguito dai fedeli che illuminano con candele le ultime ore della notte. In grande silenzio, tutti insieme si volgono verso Oriente in attesa dell’alba. Al sorgere del Sole, il Papas canta il primo verso del Vangelo di Gesù secondo Giovanni e, intonando canti di gioia, rientra in corteo nella piccola chiesa. Sulmona, l’antica capitale dei Peligni, dà vita, durante la Settimana Santa e nella Domenica di Pasqua, a sacre celebrazioni che rappresentano con coinvolgente impatto emotivo il dramma della morte e la gioia della Resurrezione di Gesù. I costumi indossati dalle Confraternite della Trinità e di Santa Maria di Loreto, i portatori di lampioni che procedono con passo strisciante, i cantori del Miserere che invece avanzano gomito a gomito con andatura oscillante lateralmente (“la ‘nnazzecarelle”) e tutto lo spettacolare apparato coreografico, conferiscono al rituale drammatico della processione del Cristo Morto una solenne grandiosità. La rappresentazione più importante per i Sulmonesi e i forestieri che vi assistono numerosi, è quella nota come “La Madonna che corre in piazza” che si svolge la Domenica di Pasqua. Dall’antica chiesa medievale di Santa Maria della Tomba esce la processione con le statue di Cristo risorto, di S. Giovanni e di S. Pietro, portate dai confratelli del sodalizio della Madonna di Loreto, che indossano il caratteristico mantello verde su tunica bianca. La statua del Cristo Risorto si ferma sotto l’arco centrale dell’antico acquedotto romano, al limite della bella e luminosa piazza Garibaldi. Le statue di S. Giovanni e di S. Pietro proseguono lentamente e, separatamente, si dirigono verso la chiesa di S. Filippo Neri, dove si trova chiusa la statua della Madonna vestita a lutto, straziata dal dolore per la perdita del Figlio diletto. Prima l’uno, poi l’altro, i due Santi bussano per annunciare alla Madonna che Cristo è risorto. Il portale non si apre. Al terzo tentativo fatto da S. Giovanni, la porta si spalanca ed appare la Madre vestita di nero che stringe un fazzoletto bianco nella mano destra. Esitante e quasi incredula, come chi teme di andare incontro ad una delusione, si avvia pian piano, seguita dalle altre due statue, lungo la piazza. A circa metà percorso, i portatori sollevano la statua della Madonna, a significare il tentativo di chi si protende sulla punta dei piedi per meglio vedere. Ormai convinta di aver visto il Figlio risorto, si lancia verso di Lui in una corsa frenetica, lascia cadere il mantello nero e il fazzoletto bianco, per subito apparire splendidamente vestita di verde, mentre nella mano destra ora regge una rosa rossa. Allo stesso istante da sotto il piedistallo si alzano in volo dodici colombi bianchi. Le campane suonano a festa e intanto si ricompone il corteo con in testa le statue del Redentore e della Madonna appaiate, seguite da quelle di S. Giovanni e di S. Pietro. La figura della Madre, in abito verde che corre gioiosa verso il Figlio trionfante sulla morte, è senza dubbio un’evidente allegoria della Speranza, la piccola “sorella” della Carità e della Fede. Non è azzardato il paragone con la famosa e celebre statua della “Macarena”, la Nostra Signora della Speranza, che si venera a Siviglia, dove tra una folla di penitenti, sfila durante la Settimana Santa, vissuta anche lì in Spagna con grande fervore e devota animazione. Meno celebri, ma non meno suggestive per religiosità e per carica emotiva, sono le sacre rappresentazioni dell’incontro della Madonna con il Figlio risorto, che si svolgono a Lanciano, nel Chietino, a Corropoli in provincia di Teramo, rispettivamente nel giorno di Pasqua e nel Martedì di Pasqua, “Il Bongiorno”, un’antica tradizione non religiosa in uso nel paese di Pianella, in provincia di Pescara. È l’usanza che trae origine dall’omaggio che i signorotti Longobardi pretendevano dai propri vassalli. Per tutta la giornata di Pasqua e durante la notte che precede il Lunedì dell’Angelo, un’allegra brigata di cantori accompagnati da suonatori di trombe, tamburi e piatti, gira per le vie del paese, portando il saluto del “Buongiorno” sotto le finestre dei cittadini, a cominciare da quelli più importanti, come il sindaco ed altre autorità. I canti, che sono spesso improvvisati ed adatti al personaggio a cui è rivolto il saluto, possono essere elogiativi e bene auguranti, ma anche scherzosi e ironici, comunque tutti accettano le burle con molta disinvoltura, anzi sono lieti di offrire dolci e bevande. Nelle ultime edizioni, con i cantori e i suonatori in costume medievale, la manifestazione viene proposta come momento di rievocazione storica ed è considerata a buon diritto un’autentica espressione di cultura popolare. La tradizione abruzzese e i riti della Settimana Santa, tra fede e devozione popolare, sono densi di significati. Ogni Domenica è Pasqua di Resurrezione, per cui questi riti e queste tradizioni pasquali richiamano alla memoria non una semplice commemorazione di un fatto storico accaduto a Gerusalemme 1985 anni fa, ma la sconfitta di ogni male, del gossip, del chiacchiericcio, della morte, dell’inciucio, del malaffare, della crisi economica e l’inizio della Vita Nuova in Cristo Risorto, Primizia della Fede e della Resurrezione della carne in ciascuno di noi. Ecco perché è importante essere Cristiani. Beato chi non si scandalizza della Croce di Nostro Signore! Questa è la Fede del Popolo cristiano cristallizzata nel Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 640, 1096, 731, 1443, 1225, 1449, 1164, 1170, 1169, 1340, 1362-66, 1363, 1680-83, 677, 793). Scrive Sant’Andrea di Creta, vescovo: “Venite, e saliamo insieme sul monte degli Ulivi, e andiamo incontro a Cristo. Viene di sua spontanea volontà verso Gerusalemme. È disceso dal cielo, per farci salire con sé lassù. Venne non per conquistare la gloria, non nello sfarzo e nella spettacolarità, “Non contenderà”, dice, “né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce” (Mt 12,19). Sarà mansueto e umile, ed entrerà con un vestito dimesso e in condizione di povertà. Egli salì verso oriente sopra i cieli dei cieli (Sal 67, 34) cioè al culmine della gloria e del Suo trionfo divino, come principio e anticipazione della nostra condizione futura. Tuttavia non abbandona il genere umano perché lo ama, perché vuole sublimare con sé la natura umana, innalzandola dalle bassezze della terra verso la gloria. Stendiamo, dunque, umilmente innanzi a Cristo noi stessi, piuttosto che le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde che rallegrano gli occhi solo per poche ore e sono destinate a perdere, con la linfa, anche il loro verde. Stendiamo noi stessi rivestiti della Sua grazia, o meglio, di tutto Lui stesso poiché quanti siamo stati battezzati in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo (Gal 3,27) e prostriamoci ai Suoi piedi come tuniche distese. Per il peccato eravamo prima rossi come scarlatto, poi in virtù del lavacro battesimale della salvezza, siamo arrivati al candore della lana per poter offrire al Vincitore della morte non più semplici rami di palma, ma trofei di vittoria. Agitando i rami spirituali dell’anima, anche noi ogni giorno, assieme ai fanciulli, acclamiamo santamente: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele”. Gli Ebrei uscirono dall’Egitto senza aver meriti propri. I meriti li acquisiranno 50 giorni dopo, quando riceveranno la Torah sul Monte Sinai. Nonostante ciò, prima dell’uscita dall’Egitto, vengono comandate al Popolo ebraico alcune mitzvot. Come mai? “I Chakhamìm, basandosi su un verso dello Shir Hashirìm, dicono che in quel momento il popolo era nudo e aveva bisogno di coprirsi con le mitzvot. Si tratta di un insegnamento importante. Senza mitzvot si è ebraicamente nudi”, insegnano i rabbini. Se poi ci si lamenta perché vengono “barbaramente uccisi” in piena crisi economica quattro milioni di agnellini pasquali ogni anno, minacciando sanzioni, bisogna anche ricordare gli aborti di esseri umani (6 milioni solo in Italia negli ultimi 40 anni) altrettanto spaventosi, insieme ai vari traffici di organi e bambini. Decine di milioni ogni anno sulla Terra, che gridano Giustizia all’Altissimo! Leshanà habbà beJerushalaim. Buona Pasqua di Resurrezione!

© Nicola Facciolini

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